È quello che è successo venerdì 26 gennaio, per il concerto di inaugurazione della Stagione concertistica 2018 del Teatro Lirico di Cagliari. Il programma accattivante, tutto dedicato ai compositori statunitensi del XX secolo ha certo attirato la benevolenza degli ascoltatori: la prima parte della serata è cominciata con la musica del grande Leonard Bernstein, l’autore del celeberrimo musical West Side Story, e i suoi “Chichester Psalms”.
Si tratta di una selezione di testi biblici ( tratta dai Salmi di Davide) in lingua ebraica, articolata in tre variegati movimenti dai numerosi effetti e colpi di scena: l’Orchestra del Teatro Lirico ha saputo rendere pienamente la semplicità e spontaneità del pezzo, dalla presenza incalzante delle percussioni nel primo movimento fino all’imponenza espressiva del movimento conclusivo, mentre la giovane voce bianca (il piccolo Giacomo Boi, perfettamente a suo agio in una parte di certo non semplice), nel secondo movimento, ha regalato quel momento angelico incastrato fra ritmi di danza e atmosfere jazz. Ottima prova per il coro, alle prese con una partitura considerata fra le più difficili del XX secolo.
A seguire, in contrasto, la vivacità messicana di Aaron Copland e del suo “El Salón México”, breve brano sinfonico: in risalto, come da partitura, i fiati, precisi sia dal punto di vista ritmico che da quello dell’intonazione, che si sono uniti al “tutti” finale in un crescendo coinvolgente.
Dopo l’intervallo, la “Grand Canyon Suite” (selezione di tre movimenti) di Ferde Grofé ha riportato ad un clima più lirico e descrittivo, reso molto bene dalla bacchetta di Renzetti che ha interpretato la partitura senza banalizzarla, cogliendo in particolare la raffinata gamma timbrica, eredità delle scuole sinfoniche europee e russe della fine del XX secolo, assai ammirate e studiate dai compositori americani novecenteschi, alla ricerca di modelli di riferimento: ha colpito soprattutto il II movimento, “On the Trail”, nel quale le percussioni imitavano lo scalpiccio deli zoccoli di un mulo. In conclusione, un evergreen: George Gerswhin e il suo celeberrimo “Un americano a Parigi”, scritto dal compositore durante un viaggio in Europa.
Il brano, riconoscibilissimo già dalle prime note della allegra melodia iniziale, ha coinvolto pubblico e orchestrali; i vari effetti sonori, di certo non più una novità ai nostri giorni, ma comunque portatori di allegria e umorismo nelle sale da concerto (uno per tutti, i clacson) hanno divertito e la commistione di blues e musica francese (soprattutto Ravel) nel personalissimo linguaggio gerswhiniano ha convinto tutti. Come bis un altro Bernstein, Elmer, omonimo di Leonard ma senza alcun legame di parentela, e la sua famosissima colonna sonora de “I magnifici sette”, consacrata da numerosi applausi anche da parte dei circa cento studenti, fra vari licei e scuola media, presenti in sala.
FRANCESCA MULAS