Dal recital di Alexander Lonquich, giovedì primo febbraio al Teatro Lirico di Cagliari, ci si aspettava molto:
il programma, che miscelava i grandi romantici con le prime avvisaglie novecentesche, ha suscitato grande curiosità, curiosità pienamente appagata dall’esibizione del solista tedesco che ha saputo mantenere una tensione costante, un filo vibrante fra i vari brani per tutta la durata del concerto.Già dall’attacco del primo dei “Dodici Deutsche (Ländler)” op. 171 D. 790 di Franz Schubert, Lonquich ha mostrato le sue doti tecniche ed espressive, creando in ogni frammento del ciclo una monade perfetta ma comunque collegata agli altri pezzi del mosaico da una salda eco armonica.
Il tocco, mai lezioso o banale, ha messo in evidenza ogni sfumatura dinamica della partitura, in un lavoro di cesello che è continuata anche negli “Studi in forma di variazione su un tema di Beethoven” WoO 31 di Robert Schumann.
Qui la concentrazione del pianista tedesco si è fatta maggiore: l’unione lo spirito romantico con quello classico ha avuto bisogno di un grande sforzo tecnico e una maggiore attenzione al dettaglio, soprattutto nel fraseggio, particolarmente azzeccato nei respiri.
Beethoven, omaggiato da Schumann con l’arte della variazione (sul tema del II movimento della “Sinfonia n. 7”), era presente in particolar modo nella densità del contrappunto evidenziato con perizia da Lonquich. Con “V mlhách (Nella nebbia)” VIII/22 di Leo Janàek , le avvisaglie della crisi dell’uomo che percorrevano come brividi i brani precedenti sono emerse con drammaticità, in una angoscia struggente e drammatica, un percorso in quattro pezzi ricchi di temi frastagliati e concisi contrapposti a momenti di assoluto lirismo.
La complessità della scrittura pianistica ha fatto risaltare le abilità tecniche di Lonquich, mentre la ricchezza timbrica è stata resa in una esecuzione stratificata, su piani diversi e sovrapposti, quasi squadrati.
Alla fine, il ritorno a Schubert con la “Sonata per pianoforte n. 22” in La maggiore D. 959 ha portato, anche grazie alla tonalità, una apparente serenità, turbata dall’ “Andantino” (reso ancora più drammatico dalla scelta dell’agogica di Lonquich) ma ristabilita, almeno superficialmente, nello “Scherzo” e soprattutto nell’ “Allegretto” finale, in un nuovo e straniante ritorno del fantasma di Beethoven, presenza costante ma evanescente come un fantasma.
Molti applausi dal (poco, purtroppo) pubblico presente in sala, attento e rapito dalla bravura di Lonquich, generoso anche nei due bis, entrambi tratti dai “Phantasiestücke op. 12” schumaniani.
FRANCESCA MULAS