Una convenzione per consentire l’assistenza ai pazienti affetti da malattie infettive e che si trovano negli istituti penitenziari Sassari e di Alghero. L’hanno siglata la Aou di Sassari e l’Ats Sardegna – Assl Sassari e consentirà di effettuare visite mediche specialistiche, prescrivere farmaci anti-infettivi e predisporre piani terapeutici personalizzati.
L’accordo, della durata di un anno, vedrà lavorare assieme, secondo un piano di lavoro concordato, i medici della clinica di Malattie infettive dell’AOU e quelli dell’unità operativa “Tutela della salute in carcere” dell’Assl sassarese.Nel 2016 Aou e Asl avevano siglato apposita convenzione per il trattamento dei pazienti affetti da malattie infettive. Un atto che, già da allora, metteva in evidenza la necessità di garantire questo tipo di assistenza sanitaria all’interno delle case circondariali del territorio della provincia. E il motivo è chiaro: «Il carcere è un’occasione straordinaria di sanità pubblica e concentra numerose patologie, con soggetti affetti da Hiv, da epatiti C e B, quindi ancora malattie sessualmente trasmissibili e tubercolosi latente». A dirlo è Sergio Babudieri, direttore della clinica di Malattie infettive e presidente onorario della Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria. Di origini romane, da oltre trent’anni vive e lavora a Sassari. Dal 1987 in Malattie infettive, per il suo lavoro ha conosciuto la realtà di San Sebastiano, il carcere cittadino ottocentesco, che dal 2013 ha chiuso i battenti per dare spazio alla nuova Casa circondariale “Giovanni Bacchiddu” a Bancali. Una realtà lontana da Sassari ma a volte, «anche in città, bastava un muro per separare, oscurare e nascondere la popolazione che stava al di qua di quella cinta muraria», aggiunge lo specialista.
In Italia il dato sulla popolazione dei detenuti, aggiornato al 28 febbraio, è di 58.163 e di questi 2.402 sono donne e 19.765 stranieri. A Sassari, invece, alla stessa data i detenuti sono 492, 16 donne e 166 stranieri, quindi ad Alghero 126 di cui 46 stranieri.
Secondo le stime a disposizione degli specialisti, «perché mancano i dati epidemiologici ufficiali», oltre il 33 per cento della popolazione carceraria italiana è portatrice di epatite C, il 6 per cento di epatite B, quindi tra il 3 e il 4 per cento dell’Hiv e il 25/30 per cento della Tbc. Si comprende l’importanza dei medici infettivologi all’interno del carcere. «Ecco perché il carcere è occasione unica di sanità pubblica – aggiunge il direttore della clinica di Malattie infettive – perché oltre alla diagnosi è possibile iniziare una terapia su persone che, una volta tornate in libertà, sarebbe difficile rintracciare». Questa attività, che presenta le sue difficoltà, è centrale per la sanità pubblica. «Non farla in carcere, può significare perdere il contatto con molte malattie, non solo infettive. Ci troviamo difronte a persone che – prosegue Sergio Babudieri – non hanno certamente il bene salute in cima alle proprie necessità». L’obiettivo è, allora, oltre l’aspetto sanitario e terapeutico, quello della prevenzione. «Con il contatto diretto – spiega ancora – rendiamo maggiormente consapevoli queste persone della loro situazione e, una volta che saranno fuori, non trasmetteranno l’infezione. L’attività che portiamo avanti con il colleghi dell’Ats rappresenta quindi un nuovo stimolo, che va nel senso di considerare la sanità penitenziaria come sanità pubblica».
La Clinica di Malattie infettive è, comunque, sempre stata un riferimento sul territorio. «Storicamente – conclude il direttore della Clinica – siamo sempre stati impegnati con un’attività che ci ha portato a essere presenti nel territorio con i nostri specialisti, nelle comunità terapeutiche, nelle case famiglia, nell’assistenza domiciliare e, periodicamente, nelle scuole per la formazione e la sensibilizzazione degli studenti».