L’evento, organizzato dal CeDAC, da domenica 29 luglio ore 20 al 9 agosto andrà in scena al Teatro Romano di Nora e a Pula.
Un divertissement letterario sul senso dell’enigma: “La morte della Pizia” di Friedrich Dürrenmatt in cartellone domenica 29 luglio alle 20 al Teatro Romano di Nora nella versione di Daniele Pecci sulla colonna sonora affidata al violoncello di Chiara Di Benedetto propone una rilettura “laica” e dissacrante degli antichi oracoli sotto le insegne del XXXVI Festival La Notte dei Poeti organizzato dal CeDAC.
Il drammaturgo e scrittore svizzero indaga sul valore delle profezie e sulla loro influenza nel destino degli uomini attraverso le parole dell’ultima sacerdotessa di Apollo, Pannychis XI, la quale infastidita dalla credulità dei suoi contemporanei proponeva loro vaticini improbabili come l’annuncio, dato ad un giovane claudicante che l’interrogava sulla propria nascita e sulle proprie origini, che egli avrebbe ucciso il suo stesso padre e sposato la madre.
Quelle parole fatidiche indussero Edipo a fuggire da Corinto, per poi imbattersi ad un crocicchio in Laio con il quale ebbe una lite sfociata in un duello mortale, in cui il giovane uccise, ignorandone l’identità, il genitore che l’aveva fatto esporre neonato e con i piedi legati in balia delle bestie feroci. Infine giunto a Tebe e sconfitta la Sfinge ne divenne re con l’obbligo di sposare la regina vedova – che in realtà era sua madre, da cui ebbe poi dei figli.
Una falsa profezia, pronunciata con l’intento di prendersi gioco di quel ragazzo che poneva domande difficili – come si può pretendere di conoscere la verità su chi ci ha messo al mondo, se sovente sfugge agli stessi interessati, specialmente «nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro» – diventa la causa scatenante di una tragedia. Non si può sfuggire alla propria sorte – e il figlio di Laio aveva già inscritto nel suo futuro il parricidio prima ancora di venire alla luce, tanto che fu quel timore ad indurre il re a liberarsi del suo unico erede e potenziale assassino frutto di una note di ebbrezza. Un oracolo indusse Laio ad allontanare il bimbo, condannandolo a morte (quasi) certa ma quel fanciullo, salvato e allevato tra altre amorevoli braccia regali in un’altra città non sarebbe comunque riuscito a sottrarsi a quell’appuntamento fatale.
Un gioco perverso – un capriccio degli dèi o forse del caso – fece sì che quell’antico oracolo portasse inevitabilmente alla più amara delle conclusioni e tutto il ciò che il Dio attraverso le sue sacerdotesse aveva preannunciato accadesse puntualmente con conseguenze immaginabili: il baldanzoso Edipo, non meno arrogante e ardito del padre, trovandoselo davanti non poté sottrarsi alla sfida né quello avrebbe potuto rinunciare ai privilegi del suo rango. Così – per una banale questione di precedenze scorse il sangue, il più anziano rimase a terra e il giovane proseguì il suo viaggio verso la propria personale catastrofe: sciolse l’enigma della Sfinge e liberò la città dall’infausta presenza della mostruosa divoratrice di uomini, quindi da eroe salvatore diventò sovrano della sua nuova patria. Ma una micidiale pestilenza colpì Tebe e la causa – secondo l’indovino Tiresia – risiedeva in una colpa: Edipo impose che venisse rivelata la verità ma questa indicava lui stesso come responsabile dell’ “infezione” e fu ancora lui con la consueta irruenza a decidere la propria pena dopo che la regina, intuita dapprima e poi compresa la ragione del male, si era tolta la vita.
Nel suo racconto Dürrenmatt descrive gli istanti cruciali prima de “La morte della Pizia” quando la vecchia Pannychis XI viene visitata dai fantasmi delle sue (involontarie) vittime: visioni inquietanti mettono la sacerdotessa davanti alla responsabilità di quelle profezie elargite con tanta leggerezza e un pizzico di malizia, per farsi beffe dell’ingenuità altrui e della cieca fiducia che uomini e donne riponevano in quegli ambigui oracoli. La Pizia deve fare i conti con gli spiriti che la raggiungono nella sua umile e umida grotta per narrarle la propria versione dei fatti, in una girandola di dubbi e contraddizioni, in cui è arduo distinguere tra fantasia e realtà.
Il vero dramma – il significato della tragedia – sta proprio nell’incomprensibile e imperscrutabile volontà del fato, da cui discendono la felicità, e l’infelicità: nel suo ruolo di profetessa, la Pizia tiene tra le dita i fili, conosce le verità nascoste, è l’unica che potrebbe forse districare quel «nodo immane di accadimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio». Il racconto di Friedrich Dürrenmatt suggerisce un’analisi lucida e puntuale della sequenza degli avvenimenti e dei rapporti di causa ed ed effetto, ma pur nella sua irriverente e arguta provocazione l’autore non mira a cancellare, ma semmai quasi ad esaltare l’imperitura essenza dell’unico vero sovrano di Delfi: l’enigma.