Sotto il pomposo titolo di “Decreto dignità” è stato emanato il primo provvedimento economico del nuovo governo
Il clamore sollevato dalla stampa capitalista e dai politicanti borghesi su questo decreto appare artificioso e interessato: nessun danno potrà venire al capitale nazionale, e ancor meno a quello multinazionale, dalle misure in esso contenute.
Al contrario, esso costituisce una palese rivelazione del carattere filopadronale e reazionario del governo in carica. Non c’è nel decreto nessuna misura a favore del lavoro stabile e garantito. Nessun serio organico di contrasto alla molteplici forme di precarietà, che rimangono tutte in piedi, compresi i contratti a termine e in somministrazione.
Nulla sul ripristino dell’art. 18 per i licenziamenti illegittimi, ma solo un parziale innalzamento delle indennità. Il decreto non contraddice, ma segue la logica del Jobs Act di Renzi.
Ridicole per le multinazionali le “penalità” previste in caso di delocalizzazione. Il protezionismo giallo-verde si guarda bene dal prevedere l’esproprio delle aziende che se ne vanno o che licenziano per fare più profitti.
In assenza di obbligo del mantenimento dei livelli occupazionali e salariali anche questo bluff ricadrà sulle spalle degli operai. L’approvazione stessa del decreto nella sua attuale stesura è addirittura messa in dubbio, a dimostrazione che i populisti piccolo-borghesi non contano nulla dinanzi agli interessi costituiti ed alla forza della classe dei capitalisti.
Prova ne è la reintroduzione dei voucher nell’agricoltura. Si approssima l’ora della vendemmia, tradizionale occasione di sfruttamento di mano d’opera giovane e in gran parte immigrata, e i capitalisti agrari, le grandi società di trasformazione e del commercio dei prodotti alimentari pretendono il riconoscimento dei sistemi truffaldini di pagamento dei lavoratori delle campagne.
Un tale decreto arreca un grave danno solo ai lavoratori, poiché fa apparire le innumerevoli forme di lavoro precario non per ciò che esse sono, cioè uno strumento utilizzato dal capitale per sfruttare a sangue e dividere i lavoratori in ogni azienda industriale o agricola, per impedire e intralciare lo sviluppo del fronte comune della lotta classista, ma come delle formule contrattuali delle quali bisogna solo correggere qualche abuso.
Mentre le catene che avvincono i lavoratori, consegnandoli allo sfruttamento aperto e senza veli dei capitalisti, si fanno sempre più strette, la politica sindacale conciliatrice approfitta del decreto indegno per rilanciare la concertazione.
I riformisti e i bonzi sindacali si sono distinti per l’apprezzamento delle “misure interessanti e condivisibili” contenute nel decreto. Sostengono di fatto il governo attraverso il sabotaggio di ogni tentativo di organizzazione della lotta per le esigenze e aspettative più sentite fra i lavoratori e i disoccupati, unica via per mettere alle corde i populisti al potere a partire dalle loro stesse promesse elettorali.
Il decreto indegno di Di Maio è l’altra faccia dell’infame chiusura dei porti ordinata dal piccolo Trump italiano, Salvini. Hanno lo stesso scopo: paralizzare e attaccare l’intera classe lavoratrice, mettendone una sezione contro l’altra, aumentando le discriminazioni e le disuguaglianze.
La borghesia stretta dalla lotta senza esclusione di colpi per i mercati, per le sfere d’influenza, dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, sempre più sulla strada della militarizzazione dell’economia e di nuove guerre imperialiste, non maschera la sua intenzione di aggravare le condizioni economiche e sociali in cui versano le masse lavoratrici, né di covare disegni di vendetta contro i proletari che non intendono restare silenziosi e sottomessi dinanzi al suo dominio di classe economico, politico, ideologico.
Con la creazione di un clima di “umiliazione nazionale” attraverso i partiti come la Lega, la classe dominante vuole trascinare al suo seguito la piccola borghesia colpita dalla crisi e gli strati arretrati
della classe operaia. Agita lo straccetto del ”prima gli italiani” contro altri Stati e altri popoli, raccatta consensi con lo slogan “non nel mio paese”, per allontanare da sé e dal suo sistema sociale la responsabilità della condizione di miseria in cui viene precipitata la classe operaia e il popolo lavoratore, mentre i miliardari continuano ad arricchirsi.
Il razzismo e la xenofobia sono l’ultima spiaggia di una borghesia che per perpetuare il proprio dominio di classe ha la necessità di rafforzare la sua dittatura di classe e minare la solidarietà dei lavoratori all’interno del paese e fuori di esso, di impedire la loro unione contro l’imperialismo, loro mortale nemico.
Dopo le elezioni del 4 marzo ha trovato nel governo Salvini-Di Maio il mezzuccio per tirare avanti nella crisi economica, sociale, politica e istituzionale che corrode le basi del suo potere.
Una soluzione chiaramente di destra, perché la borghesia è obbligata dal suo declino, dalla mancanza di qualsiasi prospettiva di ripresa (e dal rischio imminente di una nuova crisi), dalle guerre commerciali e da quella in preparazione per il riparto del mondo, a sterzare verso la reazione più nera, a liquidare le libertà democratiche, a reprimere le lotte dei lavoratori sfruttati.
Non conosce altre vie oltre la competizione sfrenata di tutti contro tutti, il rilancio del protezionismo, dello sciovinismo, del militarismo, del razzismo, del fascismo, in vista di nuovi scontri su scala più ampia.
Gli operai raggirati dalle promesse elettorali di “cambiamenti” vedranno spalancarsi dinanzi a loro l’abisso nel quale li si vuole trascinare, se alla lotta fratricida contro altri lavoratori altrettanto sfruttati, ma con la pelle d’un altro colore o una diversa lingua, non opporranno la lotta di classe contro i padroni d’ogni nazionalità e contro i governi che ne difendono gli interessi.
Più forte che mai, deve risuonare la parola d’ordine del Manifesto del Partito comunista: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Bisogna sviluppare la lotta di classe tra i lavoratori d’ogni nazionalità, di ogni paese, poiché soltanto con essa potremo difendere i nostri interessi e risalire la china.
Bisogna formare il partito indipendente e rivoluzionario del proletariato per dirigere questa lotta versi i suoi scopi: la rivoluzione sociale del proletariato, l’emancipazione dei lavoratori, l’abolizione di ogni regime di classe. Uniamoci, organizziamoci, lottiamo contro il capitale e i suoi servi!