Nell’ambito dell’iniziativa “Connessioni 2018” svoltasi a Cagliari, che ha visto la partecipazione di diversi personaggi di cultura raccontare esperienze e vicissitudini, incontriamo Folco Terzani, figlio del celebre scrittore e giornalista.
Racconta con una nota malinconica, coperta da un sorriso entusiasta, ottimista, esploratore di nuove frontiere, gli ultimi giorni trascorsi insieme a suo padre, Folco Terzani, anch’esso scrittore, mentre rivede passare, davanti a se, tutti i ricordi di una vita. Insegnamenti, racconti, aneddoti che rimandano ad un lungo periodo vissuto all’estero, vicino al lavoro del padre.Tiziano Terzani nasce a Firenze nel 1938. Compiuti gli studi a Pisa, mette piede per la prima volta in Asia nel 1965, quando viene inviato in Giappone dall’Olivetti per tenere alcuni corsi aziendali. La decisione di esplorare, in tutte le sue dimensioni, il continente asiatico si realizza nel 1971, quando, ormai giornalista, si stabilisce a Singapore con la moglie (la scrittrice tedesca Angela Staude) e i due figli piccoli e comincia a collaborare con il settimanale tedesco «Der Spiegel» come corrispondente dall’Asia (una collaborazione trentennale, durante la quale Terzani scriverà anche per «La Repubblica», prima, e per il «Corriere della Sera», poi). Nel 1973 pubblica il suo primo volume: Pelle di leopardo, dedicato alla guerra in Vietnam. Nel 1975, rimasto a Saigon insieme a pochi altri giornalisti, assiste alla presa del potere da parte dei comunisti, e da questa esperienza straordinaria ricava Giai Phong! La liberazione di Saigon, che viene tradotto in varie lingue e selezionato in America come «Book on the Month». Nel 1979, dopo quattro anni passati a Hong Kong, si trasferisce, sempre con la famiglia, a Pechino. Nel 1981 pubblica Holocaust in Kambodscha, frutto del viaggio a Phnom Penh compiuto subito dopo l’intervento vietnamita in Cambogia (i testi pubblicati in questo libro saranno tradotti per la prima volta in italiano nel volume postumo Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, a cura della moglie, apparso nel 2008). Il lungo soggiorno in Cina si conclude nel 1984, quando Terzani viene arrestato per «attività controrivoluzionaria» e successivamente espulso. L’intensa esperienza cinese, e il suo drammatico epilogo, dà origine a La porta proibita (1985), pubblicato contemporaneamente, in Italia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Le tappe successive del vagabondaggio sono di nuovo Hong Kong, fino al 1985; Tokyo, fino al 1990 e poi Bangkok. Nell’agosto del 1991, mentre si trova in Siberia con una spedizione sovietico-cinese, apprende la notizia del golpe anti-Gorbacëv e decide di raggiungere Mosca. Il lungo viaggio diventerà poi Buonanotte, signor Lenin (1992), che rappresenta una fondamentale testimonianza in presa diretta del crollo dell’impero sovietico. Un posto particolare nella sua produzione occupa il libro successivo: Un indovino mi disse, che racconta di un anno (il 1993) vissuto svolgendo la «normale» attività di corrispondente dall’Asia senza mai prendere aerei. Dal 1994 è a Nuova Delhi e nel 1998 pubblica In Asia, un libro a metà tra reportage e racconto autobiografico, che traccia un vasto profilo degli eventi che hanno segnato la storia asiatica degli ultimi trent’anni. Nel marzo 2002 interviene nel dibattito seguito all’attentato terroristico di New York dell’11 settembre, pubblicando le Lettere contro la guerra, e rientra in Italia per un intenso periodo di incontri, conferenze e dibattiti dedicati alla pace, prima di tornare nella località ai piedi dell’Himalaya dove da qualche anno passa la maggior parte del suo tempo. Due anni dopo pubblica Un altro giro di giostra, per raccontare il suo ultimo «viaggio»: quello attraverso la malattia e il mondo la circonda. Terzani muore ad Orsigna, in provincia di Pistoia, nel luglio 2004. Nel 2006 esce da Longanesi La fine è il mio inizio, il suo ultimo libro in cui «racconta» al figlio Folco di tutta una vita trascorsa a viaggiare per il mondo alla ricerca della verità.
“Abbiamo portato su da Firenze, dove ci sono armadi pieni di fotografie in bianco e nero, alcuni scatoloni in cui al babbo ora piace mettere le mani. Gli ricordano tanti episodi della sua vita. Quando arrivo sta guardando le sue foto della Cina” (da “La fine è il mio inizio”, 2006). Qual’è il primo ricordo di tuo padre e l’episodio che, più di altri, porti nel cuore?
“L’ultimo periodo è stato significativo. E’ dolce il ricordo di mio padre con la barba bianca, arrivato a questa saggezza. Prima era un padre come tanti. Mi ha stupito il fatto che sia arrivato a questi suoi pensieri, a queste sue conclusioni. Una persona spesso cerca queste risposte all’esterno, ed io c’è l’avevo lì, fra le mie mani”
“Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento, così quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse qualcun altro: «Signor Terzani, lei ha il cancro», disse il medico, ma era come se non parlasse a me, tanto è vero – e me ne accorsi subito meravigliandomi – che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse” (da “Un altro giro di giostra”, 2004). Come avete appreso la notizia, e come vi siete comportati in famiglia?
“Lui viveva in India, io in America. Mi scrisse una lettera dicendomi che stava morendo, raccomandandomi di tornare a casa una volta terminato il lavoro. Sono tornato a casa facendo finta d’aver terminato il lavoro per stare insieme a lui. Ho preso questa notizia un po’ come la prese lui. Per noi fu difficile prenderla male, perché lui stesso era tranquillo. Pensavamo fosse più semplice, soprattutto per lui, fare in modo che fosse così. Sarebbe stato un aiuto in più, un gesto di bene impareggiabile. Avevo già lavorato vicino a persone in fin di vita assieme a Madre Teresa a Calcutta, ma quando si tratta del proprio padre, è tutto diverso”
“La situazione era perfetta. Era quella che da tempo sognavo: avevo intere giornate di libertà, nessun impegno, nessun dovere e l’incredibile agio di lasciare vagare la mente, dopo tanto clamore godevo finalmente di tanto silenzio. Per anni, preso da guerre, rivoluzioni, alluvioni, terremoti, grandi mutamenti in Asia, ero stato un appassionato osservatore di vite in pericolo, vite distrutte o, più spesso, sprecate: tantissime vite altrui. Ora osservavo semplicemente quella che più mi riguardava: la mia” (da “Un indovino mi disse”, 1995). Com’è cambiata la vita di tuo padre in seguito alla malattia?
“La vita di prima lo aveva visto in prima linea, protagonista della sua vita. Successivamente si ritirò per occuparsi di se stesso. Si è dedicato ai cicli più grandi della vita, con una sorta di rassegnazione verso tutto ciò che accade ogni giorno senza sosta, avvenimenti che si susseguono uno dopo l’altro e che lui stesso aveva, in passato, raccontato. Il suo sguardo era rivolto verso l’Eterno. Si è trasferito dalla città alla montagna, arrivando, come lui stesso afferma, all’Himalaya per trascorrere più tempo in raccoglimento. Questo stesso movimento cambiò il suo modo di vedere il mondo. Quando scrisse Lettere contro la guerra non riconobbi quasi la persona che l’aveva scritto. Mi chiedevo: com’è che quell’uomo che prima faceva il giornalista era arrivato a scrivere un testo come questo? Aveva iniziato a lavorare su se stesso”.
“Nella visione tibetana non c’è differenza fra religione e medicina, e l’uomo, combinazione di corpo, mente e spirito, non ha che da essere pio per essere anche sano. La malattia è un disordine che nasce nella mente molto prima che nel corpo. Per questo per i tibetani la terapia è soprattutto spirituale. Recitare i mantra o l’eseguire un certo numero di prostrazioni è più importante della pillola da mandar giù con un po’ d’acqua” (da “Un altro giro di giostra”, 2004). Se ve ne fu qualcuna, quale fu, secondo te, la sua preoccupazione durante il periodo della malattia e quale fu il suo comportamento?
“Provò di tutto. Era andato nei migliori ospedali. Ma il suo nemico non fu il cancro, quanto la mortalità. Per lui era più importante accettare la sua situazione e consapevolizzarsi su questo, integrare questa visione. Penso che per un giornalista abbastanza pratico come lui al dissolvimento della praticità stessa il passaggio sia fondamentale. Lui non seguiva nessuna religione, soltanto se stesso. La sua esperienza di vita fu molto importante in merito. Lui sentiva che sarebbe ritornato sulla Terra, per cui la fine stessa non aveva più una grande importanza. Riuscì a spiegare discorsi come questi da una posizione laica e questa era la cosa più bella”
“Che gioia, figlio mio. Ho sessantasei anni e questo grande viaggio della mia vita è arrivato alla fine. Sono al capolinea. Ma ci sono senza alcuna tristezza, anzi, quasi un po’ con divertimento. L’altro giorno la mamma mi ha chiesto: «Se qualcuno telefonasse e ci dicesse d’aver scoperto una pillola che ti farebbe campare altri dieci anni, la prenderesti?», e io istintivamente ho risposto «No!», perché non la vorrei vivere altri dieci anni. Per rifare tutto quello che ho già fatto? Sono stato nell’Himalaya, mi sono preparato a salpare per il grande oceano di pace e non vedo perché ora dovrei mettermi su una barchetta a pescare, a far vela, non mi interessa” (da “La fine è il mio inizio”, 2006). Questo pezzo ci ricorda dell’importanza dell’accettazione. Che idea ti sei fatto sulla vita, e, in relazione all’ultimo periodo vissuto insieme a tuo padre ad Orsigna, cos’hai appreso dai suoi insegnamenti?
“Ho avuto la fortuna di ricevere questi insegnamenti. C’era molta comprensione da parte sua. Diceva che per lui fu un momento importante quando l’indovino gli disse che sarebbe morto se quell’anno avesse preso l’aereo, perché attraverso la forza di quelle parole è riuscito a cambiare la sua vita e riflettere sulle grandi cose. Per cambiare i pensieri bisogna cambiare anche le proprie abitudini, i propri stili di vita, ascoltare la natura, perché è la natura che ci ha generato. Diceva che tutto ciò che abbiamo appreso, ad un tratto, dobbiamo ridarle indietro. Per cui lui iniziò a prepararsi per il seguito, con l’attribuzione a se stesso del termine Anam – senza nome, dopo una vita spesa a farsi un nome, aveva intenzione di disfarsene”.
In risposta alla tua domanda: “Allora, babbo, hai proprio deciso di morire?” lui risponde: “Vedi, questa di «morire» è una cosa che vorrei evitare. Mi piace molto di più l’espressione indiana che conosci come me «lasciare il corpo». Infatti il mio sogno è di scomparire come se non esistesse il momento del distacco. L’ultimo atto della vita, che è quello che si chiama morte, non mi preoccupa perché mi ci sono preparato. Ci ho pensato“. Hai vissuto insieme a lui, gli ultimi momenti. Quali pensieri attraversavano la tua mente mentre ti raccontava la sua vita?
“Pensavo che il segreto per morire felici è esser stati felici in vita, aver vissuto una vita completa e soddisfacente. Andare via, alla fine diventa quasi una celebrazione, non più una tragedia, un dramma. Un cerchio che si chiude. Lui ha avuto quello che desiderava, fino in fondo”.
Daniele Fronteddu