La Cassazione interviene: altro che «carattere scherzoso»: l’uso abituale dell’epiteto «finocchio» davanti ai colleghi fa scattare il danno.
La Cassazione sollecita un maxi risarcimento per le vittime di omofobia. Lo ha fatto con l’ordinanza 4815/19, pubblicata oggi dalla sezione lavoro che boccia il ricorso del legale rappresentante condannato in secondo grado a risarcire un dirigente per condotte vessatore ai suoi danni, cioè perché preso di mira perché gay.Non c’era nulla di scherzoso nella condotta del legale rappresentante per la Corte territoriale anzi l’atteggiamento rivelava una grave mancanza di rispetto e di lesione della personalità morale del lavoratore. Il ragionamento del giudice di appello non fa una piega ad avviso del Palazzaccio che conferma il risarcimento. La Corte d’appello ha riprodotto le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo di primo grado e «ha dato atto di come gli specifici episodi descritti non fossero stati dimostrati ma come, invece, fosse stata comprovata la protratta condotta offensiva di parte datoriale, pure allegata dal lavoratore, e relativa alla presunta omosessualità del lavoratore, sistematicamente apostrofato col termine finocchio».
Sbaglia la società a criticare la sentenza impugnata per non aver colto «il carattere scherzoso degli epiteti con cui il legale rappresentante era solito apostrofare il dipendente, in presenza degli altri colleghi e in un clima cameratesco». La Corte di merito, infatti, ha rilevato il danno non patrimoniale subito dal lavoratore dagli elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, «sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano arrecate, sulla difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore subordinato; ha ritenuto che le offese, ripetute nel tempo, avessero arrecato, tra l’altro, concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire».
E, art. 2 della Costituzione alla mano, la Suprema Corte, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, ha ricordato “il diritto costituzionalmente tutelato alla libera espressione della propria identità sessuale quale essenziale forma di realizzazione della propria personalità”.