Le fatidiche domande – «Chi sono io se non sono io? Quando guardo il mio uguale a me, vedo il mio aspetto, tale e quale, non c’è nulla di più simile a me! Io sono quello che sono sempre stato? Dov’è che sono morto? Dove l’ho perduta la mia persona? Il mio me può essere che io l’abbia lasciato? Che io mi sia dimenticato? Chi è più disgraziato di me? Nessuno mi riconosce più, e tutti mi sbeffeggiano a piacere. Non so più chi sono!» rimandano allo stato di confusione del povero servitore, costretto con la forza da quell’altro (da) sé ad ammettere di aver torto e rinnegare la propria identità. Anfitrione al contrario capovolge l’assioma del marito geloso, una volta scoperto l’intrigo sceglie saggiamente di perdonare e se non proprio dimenticare, far buon viso a cattivo gioco, quasi concedendosi il dubbio che avere in sposa una donna amata da Giove possa apparire come un onore invece che un’onta – tanto più che il dio per conquistarla ha dovuto assumere l’aspetto del rivale.
Un finale ambiguo – seppur lieto come è lecito aspettarsi dalla “tragicommedia” – che affronta un tema centrale e attualissimo nell’epoca dei furti d’identità e della realtà virtuale, facile schermo dietro cui è possibile nascondersi e recitare un parte, creare dei legami e perfino svanire nel nulla – altra consuetudine del Giove seduttore – abbandonando e ferendo coloro che pur consci del pericolo si siano lasciati attrarre e conquistare.
Sottolinea la regista Teresa Ludovico: «Il doppio, la costruzione di un’identità fittizia, il furto dell’identità, la perdita dell’identità garantita da un ruolo sociale, sono i temi che Plauto ci consegna in una forma nuova, da lui definita tragicommedia, perché gli accadimenti riguardano dèi, padroni e schiavi. In essa il sommo Giove, dopo essersi trasformato nelle più svariate forme animali, vegetali, naturali, decide, per la prima volta, di camuffarsi da uomo. Assume le sembianze di Anfitrione, lontano da casa, per potersi accoppiare con sua moglie, la bella Alcmena, e generare con lei il semidio Ercole. Giove-Anfitrione durante la notte d’amore, lunga come tre notti, racconta ad Alcmena, come se li avesse vissuti personalmente, episodi del viaggio di Anfitrione. Durante il racconto il dio provò, per la prima volta, un’ilarità che poi si premurò di lasciare in dono agli uomini. “Abbandonato il regno delle metamorfosi, si entrava in quello della contraffazione” Incipit Comoedia (R. Calasso), ovvero “Aprite gli occhi spettatori, ne vale la pena: Giove e Mercurio fanno la commedia, qui” come ricorda lo stesso Plauto.
Da quel momento nelle rappresentazioni teatrali il comico e il tremendo avrebbero convissuto e avrebbero specchiato le nostre vite mortali ed imperfette. Dopo Plauto in tanti hanno riscritto l’Anfitrione e ciascuno l’ha fatto cercando di ascoltare gli stimoli e le inquietudini del proprio tempo.
Sei attori e un musicista per creare una coralità multiforme e tragica che però agisce come un contrappunto grottesco e farsesco in uno spazio che disegna doppi mondi: divino e umano. Un andirivieni continuo tra un sopra e un sotto, tra luci e ombre. Realtà e finzione, verità e illusione, l’uno e il doppio, la moltiplicazione del sé, l’altro da sé e il riesso di sé, si alterneranno in un continuo gioco di rimandi, attraverso la plasticità dei corpi degli attori, le sequenze di movimento, i dialoghi serrati e comici.