Tra questi testimoni c’è proprio Arèvalo che – come egli stesso ha raccontato al giornalista Roberto Cossu di fronte al pubblico del festival – nel ’73 a soli quattordici anni era divenuto la mascotte della Brigata di pittura muraria, con la quale usciva di notte per pitturare le strade. Militante della gioventù comunista, andava a lanciare volantini di protesta. Venne scoperto e si rifugiò all’ambasciata italiana per poi vedere la sua vita catapultata dall’altra parte dell’oceano.
“Vivere all’interno dell’ambasciata è stata un’esperienza fortissima – ha affermato lo scrittore –. Arrivato in Italia però non volevo far sapere che ero profugo. Mi vergognavo di dirlo. Oggi ne vado fiero.
Sono cresciuto in Italia leggendo tutto quello che potevo, parlando per citazioni perché dovevo impormi”.
La commozione per la fuga dal Cile ha lasciato spazio a un pensiero per l’attuale dramma nel Mediterraneo: “A volte mi vedo nei panni della gente che oggi arriva nei gommoni. Io ho vissuto un’Italia accogliente, era un’epoca meravigliosa. In confronto a ciò che succede ora la mia storia è nulla. Mi sento un privilegiato. Ma ho preso il meglio che ho avuto dall’Italia e ho cercato di restituirlo, perché mi sento responsabile del luogo che mi accoglie, sia che mi trovi a Roma, Milano o Venezia”.
Dopo la visione del film di Moretti, che ha portato in sala una forte carica emotiva, Arèvalo ha presentato il suo libro “Le Terre di nessuno”, il cui titolo è già indicativo di una forte correlazione con il tema del festival cinematografico di Asuni, anche quest’anno diretto artisticamente da Marco Antonio Pani. Un libro che sintetizza, attraverso una serie di poesie scritte tra il 1980 e il 2016, l’esperienza umana e artistica di questo straordinario autore, ormai riconosciuto come uno tra i più attivi sostenitori e promotori della creatività latinoamericana in Europa.
“Per me è molto bello tornare in Sardegna, è un onore, perché il mio primo produttore è stato Ignazio Delogu, un sardo eccellente che è stato anche traduttore di Pablo Neruda – ha concluso Arèvalo –. È un doppio momento letterario e cinematografico di grande emozione, in cui un’ultima volta ancora mi si fa sentire a casa”.