Scrive Melita Cavallo ne “Le mille facce dell’ascolto del minore“: “Ascoltare, a differenza del sentire, inteso unicamente come percezione sensoriale, è un processo che coinvolge entrambi i soggetti: l’adulto che ascolta (il giudice) e il minore. Ascoltare un bambino vuol dire conoscere e aver presente non solo il bambino in carne ed ossa, il bambino reale, ma il suo mondo interno relazionale, intersoggettivo; stare con lui, entrare a far parte della relazione che si viene a creare nel “campo” dell’ascolto che è esso stesso campo relazionale e giudiziario. Si tratta di co-costruire una dimensione interpersonale, intersoggettiva con il minore, senza essere intrusivi, coniugando prossimità emotiva (in tale senso un “sentire” emotivo) con la comprensione di ciò che è più utile per lui. E’ indispensabile compiere un accurato studio della situazione (gli atti e le relazioni sullo sviluppo del minore che si va ad incontrare, soprattutto se l’ascolto è delegato al solo giudice onorario) a cui fa seguito l’osservazione del comportamento del minore (come giunge in udienza, quale postura ha, quale vicinanza/distanza dalle figure di riferimento, le sue reazioni e quanto verbalizza spontaneamente o su sollecitazione. Tali osservazioni verranno accostate alla sua storia affettiva e relazionale, come pure alle specifiche tematiche legate alla sua fascia d’età“.
Marco Fabio Quintiliano, oratore romano e maestro di retorica, asseriva: “Non è tanto dannoso ascoltare le cose superficiali quanto smettere di ascoltare le cose necessarie”, precisazione quanto mai necessaria in virtù del riconoscimento del concetto di ascolto trattato in questa sede, presumibilmente ricercato da alcune figure che operano nel campo giuridico, in particolare, dei minori. Ma “qual’è la sostanziale differenza fra sentire ed ascoltare?”, una semplice domanda che per sua natura dovrebbe prescindere da qualsivoglia preparazione in ambito accademico e, data la lunga esperienza decennale vantata dagli specialisti del settore, relativamente all’ascolto empatico utilizzato in ambito psico-clinico e data la preparazione teorico-applicativa, a maggior ragione, non dovrebbe tardare ad arrivare.
Non entrando specificatamente in merito all’analisi tecnica della Dott.ssa Cavallo abbastanza esaustiva nei dettagli, mi preme un osservazione che esplicito meglio attraverso tre considerazioni:
E’ possibile coniugare competenze etico-professionali allo sviluppo di una sensibilità che prescinda dalle acquisizioni puramente teorico-tecnicistiche? E’ possibile anteporre, senza ulteriori preamboli giustificativi, una sensibilità spesso negata o velata talora da meccanismi architettonico-strutturali talora da fini ego-convergenti, propria del concetto di solidarietà spontanea, altrimenti detta “compassione”, senza per questo ripiegarsi nel proprio concetto di etica morale-professionale con la presunzione di voler comunque raggiungere l’obiettivo? E se avessimo dimenticato cosa sia veramente l’Ascolto?
“C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità”
Alessandro Baricco
Non una critica, ma una riflessione, nella fattispecie per tutte quelle professioni a valore umanistico-vocazionale tese al riconoscimento, alla valorizzazione, alla semplice e complessa ri-scoperta dei princìpi universali regolatori della vita stessa.
Daniele Fronteddu