La legge in questione specificamente all’art.4 prevede il diritto della donna di interrompere la gravidanza ogni qualvolta “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Con la promulgazione della Legge 194 l’aborto registra l’ultima tappa del suo processo di secolarizzazione, muta, trasformandosi da reato-peccato in diritto.
In verità, già nel 1975 con la sentenza n. 27 del 18 Febbraio, la Corte Costituzionale aveva iniziato a scalfire la concezione dell’aborto come reato.
In quell’occasione infatti la Corte aveva sancito la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 546 del codice penale, allora in vigore, nella parte in cui questo puniva chiunque avesse cagionato l’aborto di una donna consenziente pur quando fosse stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o l’equilibrio psichico della gestante, senza che ricorressero gli estremi di cui all’art. 54 c.p. relativo allo stato di necessità (che costituiva una scriminante).
Tale previsione, secondo la Corte, contrastava con quelle degli articoli 31 secondo comma e 32 primo comma della Costituzione secondo cui la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” e “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
La Corte aveva precisato che, pur essendo la tutela del concepito garantita costituzionalmente, questa era suscettibile di collidere con la tutela riconosciuta ad altri beni anch’essi di rango costituzionale, e che dunque la tutela del primo non avrebbe dovuto e potuto avere una prevalenza totale ed assoluta tale da far venir meno la garanzia dei secondi.
Ciò che però maggiormente rileva in questa pronuncia è la conclusione relativa alla scriminante dello stato di necessità che “si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare” mentre, rileva la Corte “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
La tutela della vita e della salute fisica e psichica della donna-persona prevale dunque, sulla tutela riconosciuta all’embrione che persona ancora non è.
La succitata sentenza ha, come era prevedibile, suscitato feroci polemiche che peraltro non si sono ancora sopite. Alcune associazioni come “ProVita”, tra gli sponsor del Congresso delle Famiglie di Verona, contestano alla Corte Costituzionale di aver varcato i confini del proprio ruolo istituzionale abbandonando il campo del diritto e invadendo quello della filosofia.
In verità si potrebbe obiettare che se pure la Corte avesse deciso diversamente, se pure avesse affermato che l’embrione è già persona, anche in quel caso avrebbe invaso il campo della filosofia, non essendovi neppure in ambiente scientifico unanimità su ciò che può esser definito persona e ciò che persona non è.
Si potrebbe poi ulteriormente replicare che filosofia e diritto non sono materie diametralmente opposte e che anzi la filosofia ha da sempre influenzato la creazione del diritto, la concezione di Stato, di ordinamento giuridico, di legge. La filosofia come tale si inserisce sempre all’interno di un determinato contesto storico, economico, sociale, culturale; contesto che necessariamente ed inevitabilmente influisce nella creazione del nuovo diritto. Sicché può dirsi che il diritto, quale espressione di un dato contesto è in parte anche espressione di una data filosofia.
Per quanti sforzi possano essere profusi nel tentativo di scindere le due materie, il diritto e la filosofia, condizionandosi reciprocamente, riflettono entrambe un certo tipo di società e periodo storico.
Potrebbero essere elencati tanti esempi, tanti istituti che dimostrano come il diritto sia tra le espressioni più dirette del contesto storico in cui viene creato. Si pensi ad esempio alla creazione del ius honorarium che rifletteva chiaramente i nuovi sviluppi di una Roma preclassica e classica in completa e piena espansione. Oppure si pensi all’evoluzione della pena di morte in Italia, abolita dapprima dal codice Zanardelli entrato in vigore nel 1890 e poi reintrodotta nel 1930 dal Governo Mussolini, per poi essere nuovamente abolita con la Costituzione della Repubblica Italiana nel 1948. Si pensi alla disciplina dello sciopero, dell’organizzazione sindacale, dapprima contemplati entrambi quali reati e poi divenuti diritti costituzionalmente garantiti.
Alla luce di ciò, se l’analisi della sentenza di cui sopra e della legge 194, non può prescindere dai rinati movimenti femministi degli anni ’70, ancor meno può prescindere dalle testimonianze, dalle storie delle donne che ricorrevano all’aborto clandestino prima che questo venisse riconosciuto diritto, o dai tragici numeri di quelle che, nelle gattabuie delle mammane, molto spesso incontravano la morte.
Né si può ignorare il fatto che nello stesso 1975, sia stata emanata anche la Legge 151 di “Riforma del Diritto di Famiglia” che sanciva l’eguaglianza tra i coniugi segnando (tra l’altro) il passaggio dalla potestà del marito alla potestà condivisa .
La legge 194, va da sé, era un legge la cui promulgazione era inevitabile in uno stato travolto da profonde trasformazioni, in cui la donna cessava di essere mezzo, strumento e oggetto per la procreazione ma diventava un “fine”, in quanto persona, in quanto essere umano.
E dunque a quella legge ancora oggi così discussa, a quel diritto ancora oggi così ostacolato, (basti vedere i numeri relativi ai ginecologi obiettori di coscienza) specialmente dai cattolici più integralisti, non si può rinunciare senza compiere un passo indietro nella storia, nella civilizzazione di un’intera nazione dell’evoluto Occidente, senza riproporre quella concezione della donna come mezzo, strumento per procreare, senza rinunciare a quel processo di secolarizzazione che ha portato l’Italia ad essere uno stato laico e indipendente e sovrano rispetto alla Chiesa Cattolica.
Lecito dunque lo sconcerto e l’amarezza per quanto accaduto in questi giorni del Congresso di Verona, tra feti di gomma distribuiti come gadget dalla menzionata associazione ProVita, le dichiarazioni di Massimo Gandolfini, (leader del Family Day) che ha paragonato l’aborto all’omicidio, così come del pari destano preoccupazione la richiesta di Forza Nuova di un referendum per abrogare la 194, e le dichiarazioni di Ignacio Arsuaga, fondatore e presidente di CitizenGo, piattaforma nota per una comunicazione estremamente aggressiva contro l’aborto e l’ideologia gender.
Secondo quanto riporta l’Internazionale, Arsuaga avrebbe infatti spiegato ai partecipanti al Congresso come vincere la “battaglia” per la famiglia tradizionale percorrendo due vie: vincendo le elezioni politiche (anche in vista delle europee che si terranno a maggio) o cercando di influenzare i partiti politici, controllando indirettamente chi gestisce il potere.
Potrebbe inquietare dunque, anche alla luce delle dichiarazioni di Arsuaga, che all’evento in questione abbiano partecipato alcune personalità italiane come il senatore leghista Simone Pillon, il Ministro per la famiglia e le disabilità Lorenzo Fontana (Lega Nord), la Presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il Vice presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Invero lo stesso Matteo Salvini ha dichiarato che non è nelle sue intenzioni cambiare o mettere in discussione la legge 194, considerata una conquista civile e sociale, ma al contempo si è anche scagliato contro le donne che hanno sfilato in piazza contro il Congresso: ”Mi incuriosiscono queste presunte femministe, -ha dichiarato- parlano di diritti delle donne e fanno finta di non vedere qual è il vero pericolo per le donne: l’estremismo islamico”.
Eppure, a dire il vero, viste le reazioni e la preoccupazione suscitati dal Congresso di Verona, visti i numeri degli obiettori di coscienza, visti i numeri dei femminicidi, pare che le donne italiane, più che temere l’estremismo islamico, temano l’estremismo nostrano, quello fatto di pregiudizi, di “ruoli naturali” e di referendum che le vorrebbero privare del diritto all’autodeterminazione.