“Un bambino può insegnare sempre tre cose ad un adulto:
A essere contento senza motivo.
A essere sempre occupato con qualche cosa.
A pretendere con ogni sua forza quello che desidera”
Paulo Coelho
Nel 1982 nasce Iqbal Masih, “venduto” dal padre per ottenere 16 dollari a fronte di un debito contratto per il matrimonio del fratello. All’età di 4 anni comincia a lavorare in schiavitù in una fabbrica di tappeti. Parecchie volte cerca di sfuggire al direttore della fabbrica venendo più volte gettato in un pozzo nero, quasi senza aria, che il bambino chiama “la tomba”. A dodici anni decide di ribellarsi alla sua condizione di semi schiavitù denunciando i suoi sfruttatori.
Lavora per un minimo di 12 ore al giorno 7 giorni alla settimana, incatenato e spesso picchiato, con uno stipendio pari ad una sola rupia, equivalente a pochi centesimi di euro. Nel 1992 riesce ad uscire di nascosto dalla fabbrica per prendere parte, con altri bambini, ad una manifestazione contro il lavoro schiavistico, presieduta dall’attivista Eshal Ullah Kahn, leader del Fronte di Liberazione dal Lavoro forzato che, in quello stesso anno, riesce a far promulgare una legge per l’abolizione dell’impiego alla manovalanza coatta. Ma l’abolizione è ancora lontana, ed il padrone dell’impianto presso il quale il piccolo Iqbal lavora dice alla famiglia che il loro debito, invece che diminuire, è aumentato. La famiglia è costretta a fuggire, abbandona il villaggio e Iqbal che, ospitato in un’ostello gestito dall’organizzazione di Ullah Kahn, può riprendere ad andare a scuola.
Intanto Iqbal porta le cicatrici delle percosse ricevute e la sofferenza della negligenza, delle ore passate davanti al telaio senza la possibilità di potersi muovere, del silenzio dei suoi genitori. Il 1993 è un anno importante, Iqbal ottiene il meritato riconoscimento per il suo coraggio, la sua abnegazione: comincia a viaggiare, partecipa a conferenze internazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti dei bambini negati nel suo Paese, contribuendo alla battaglia contro le vecchie quanto nuove schiavitù del mondo.
Nel 1994 ottiene un premio, sponsorizzato da un azienda di calzature, di 15mila dollari che decide di donare per la costruzione di una scuola in Pakistan. L’anno successivo partecipa ad una conferenza contro la schiavitù dei bambini e, grazie a lui, circa 3mila piccoli schiavi vengono liberati.
“Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro” dice Iqbal “gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite“.
Iqbal lascia il corpo il 16 aprile 1995, colpito dai proiettili provenienti da un automobile con i finestrini oscurati, mentre si svagava in sella alla sua bicicletta. Aveva un sogno: diventare un avvocato e lottare per i diritti dei bambini “per fare in modo che i bambini non lavorino troppo“. A pochi anni da queste parole, ritorna alla mente quella fotografia, in bianco e nero del suo viso sorridente ed i suoi occhi, profondi, dolci, liberi, come quelli di tutti i bambini del mondo. La mia riflessione, a pochi anni di distanza dall’evento, guarda a tutti gli sguardi che, rivolti “altrove“, si vedono costretti, in un estenuante, quanto inutile, lotta alla sopravvivenza di una società ormai psicologicamente logora, trascinata dai clichè dell’apparenza.
La storia di Iqbal ci ricorda l’importanza di quelle parole che, profondamente feriti, pensiamo di non riuscire a pronunciare e la netta convinzione dell’impossibilità di co-esistenza tra la verità dello spirito e quella della materia: il desiderio di libertà che affonda le radici nella ricerca di quest’equilibrio, sempre più necessario, per la nostra ed altrui realizzazione. Una libertà della quale il piccolo Iqbal, umilmente, si è fatto portavoce, spezzata nel pomeriggio del 15 aprile, in uno dei tanti momenti, dei quali sembriamo distrattamente dimenticarci, nei quali i bambini esprimono Se Stessi, la Vita.
Gli interessi, diametralmente opposti, sono contenuti in quel gesto che costò la vita al piccolo Iqbal. Scriveva Salvador Dalì, pittore spagnolo, “La differenza tra i falsi ricordi e quelli veri è la stessa che c’è per i gioielli: sono sempre quelli falsi che sembrano i più reali, i più brillanti“. Ed è esattamente la convinzione di quel falso ricordo che, protratta in avanti, porta a credere alla veridicità di quel che apparentemente sembra tangibile ma che, in realtà, è più illusorio del corpo stesso.
Daniele Fronteddu