Nella fattispecie, il ricorso degli imputati è stato accolto dopo una doppia condanna in primo e secondo grado con il conseguente annullamento perché il “fatto non sussiste”. Nel caso approdato innanzi alla Suprema Corte, i proprietari delle case avevano installato le telecamere sul muro perimetrale: frustrati da schiamazzi, auto parcheggiate fuori posto, escrementi di cane lasciati davanti al loro cancello. E minacciano i vicini di utilizzare i video per sporgere denuncia contro i presunti autori delle dedotte molestie.
Tali circostanze non erano bastate ad impedirgli la condanna nei due gradi di merito, ma così non la pensano i giudici di legittimità in ragione di un’importante decisione della Corte di giustizia europea: in base alla sentenza C212/13, infatti, il trattamento di dati personali altrui senza consenso dell’interessato deve ritenersi possibile quando risulta strettamente necessario a realizzare l’interesse del responsabile, ad esempio la difesa della proprietà privata, il che rende lecito ciò che in astratto è illegittimo. Dev’essere sottolineato, inoltre, che la violenza privata si configura quando la parte offesa è costretta a tollerare un qualcosa di diverso dai fatti di violenza o minaccia contestati. Anche a voler ritenere violenza impropria la ripresa delle immagini, l’installazione dell’impianto centra l’obiettivo – ovvero registrare ciò che avviene in strada – senza che vi sia una fase intermedia e distinta di coartazione delle libertà di determinazione per le persone offese.
In ultimo, è tuttavia opportuno rilevare che l’uso strumentale dei video, però, può integrare il reato di molestia che si configura quando l’azione viene percepita dopo che è stata interamente compiuta. Insomma, per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, va bene utilizzare strumenti di videoripresa per proteggere la proprietà, ma non bisogna mai farne un uso strumentale o molesto.