l dato normativo da cui partire è costituito dall’art. 1 comma 1 della Legge 14 aprile 1982, n. 164, in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, secondo cui “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
In precedenza, alla luce della genericità del precetto normativo, parte della giurisprudenza riteneva che presupposto applicativo della rettifica dell’identità sessuale fosse l’”avvenuta modificazione della struttura anatomica del soggetto con l’eliminazione quanto meno degli organi riproduttivi” (cfr. Tribunale di Roma, 18 luglio 2014).
Alla luce della successiva evoluzione giurisprudenziale, sia a livello nazionale, sia a livello europeo, ormai risulta consolidato il principio secondo cui non sarebbe più necessario l’adeguamento dei caratteri sessuali primari.Tra i principali provvedimenti in materia si segnalano:
la sentenza n. 15138/2015 della Corte di Cassazione che ha riconosciuto il diritto del transessuale alla rettifica di sesso, pur in assenza di modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, tenuto conto che, in caso contrario, si restringerebbero eccessivamente le ipotesi di godimento dei diritti fondamentali della persona, quali l’identità personale, l’autodeterminazione, l’integrità psicofisica e il benessere psicosociale.
la sentenza n. 221/2015 della Corte Costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 1 della legge n. 164/1982, in quanto detta disposizione, sulla base di una interpretazione coerente con i diritti della persona, non impone la necessità del preventivo trattamento chirurgico ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica del sesso. Principio poi ribadito anche dalla successiva sentenza n. 180/2017;
la sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Y.Y. contro Turchia del 10 marzo 2015, che aveva condannato la Turchia a risarcire i danni patiti da un transessuale per aver dovuto attendere anni per ottenere l’autorizzazione ad effettuare i trattamenti chirurgici richiesti. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, ha ritenuto la disciplina del codice civile turco (che subordinava l’accoglimento dell’istanza alla sussistenza del requisito della “definitiva incapacità di procreare”) in contrasto con l’art. 8 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo – che, come noto, protegge la vita privata – in quanto ostacolerebbe l’esercizio del diritto della persona all’identità di genere, da considerarsi aspetto essenziale del più ampio diritto all’autodeterminazione individuale.
La sentenza della Corte di Strasburgo nel caso X.X contro Italia dell’11 ottobre 2018 che ha accertato la violazione, da parte dell’Italia, del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall’art. 8 della CEDU, in relazione al rifiuto dell’autorità amministrativa (prefetto) di accogliere l’istanza di cambiamento del nome poiché il soggetto richiedente non aveva ancora subito l’intervento chirurgico e, quindi, non era stata pronunciata la sentenza definitiva che attestasse l’esecuzione dell’intervento e il definitivo mutamento dell’identità sessuale, tenuto conto che nel caso concreto il rifiuto era stato motivato su ragioni puramente formali, senza tener conto delle peculiarità del caso concreto.
La giurisprudenza di merito, preso atto dei nuovi orientamenti espressi dalla Cassazione, dalla Consulta e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo è ormai concorde nel non ritenere necessario il trattamento chirurgico ai fini della rettifica di sesso. Di seguito una breve panoramica di recenti pronunce che hanno applicato i principi giurisprudenziali sopra enunciati:
Può essere accolta la domanda di rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, in presenza di una consapevole, effettiva e irreversibile volontà di essere riconosciuta quale appartenente al genere maschile, nel cui ambito parte attrice si riconosce e si integra da diversi anni, una volta trovato un centro specialistico nel quale si è sentita accolta (Tribunale di Milano, sent. 5083/2019 del 28 maggio 2019);
Tenuto conto che la riattribuzione di sesso attraverso intervento chirurgico necessita di tempistiche non ben definite, ma sicuramente non immediate, la discrepanza tra l’attuale aspetto esteriore dell’attrice – rispetto al tessuto identitario – e i documenti anagrafici comporta sia un reale impedimento a vivere e progettare la vita con la dovuta serenità, sia uno stato di sofferenza, per cui l’adeguamento dei documenti anagrafici è da considerarsi prioritaria per il benessere psico-fisico di quest’ultima e non deve essere subordinato alla riattribuzione chirurgica del sesso (Tribunale di Catania, Sent. 2185/2019 del 23 maggio 2019);
Se il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali è da intendersi in funzione della piena tutela del diritto alla salute (laddove è volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica), più che a garantire la corrispondenza tra sesso anatomico e sesso anagrafico, non vi è motivo per ritenere l’intervento chirurgico stesso funzionale all’accoglimento della domanda di rettifica e per imporre due distinte fasi del procedimento, essendo al contrario pienamente accoglibile la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso anche in assenza di un già compiuto intervento chirurgico (Tribunale di Ancona, sent. 936/2019 del 17 maggio 2019).
Va riconosciuto il diritto alla rettifica anagrafica e alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali in presenza di un serio percorso terapeutico, costante negli anni, tenuto conto dei risultati dei test medici e della relazione psicologica, ove si evidenzi l’effettiva necessità, in relazione al desiderio più volte insistentemente ribadito dal richiedente, di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico tra la psiche e la propria morfologia anatomica (Tribunale di Rimini, sentenza n. 386/2019 dell’8 maggio 2019);
Il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantiere, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona. Lo stesso legislatore, con l’art. 31 del D.lgs 150 del 2011, ha ribadito di voler lasciare all’apprezzamento del giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento chirurgico, l’effettiva necessità dello stesso, in relazione alle specificità del caso concreto. Esso, infatti, va inteso non come prerequisito per l’accesso al procedimento di rettificazione, bensì come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico (Tribunale di Perugia, sentenza n. 237/2019, del 14 febbraio 2019);
La prova della consolidata e irreversibile convinzione della persona di appartenenza al genere nel quale chiede giudizialmente la rettificazione può desumersi da elementi quali: la diagnosi certa di disforia di genere, l’esperienza di vita dell’istante, l’utilizzo di una terapia ormonale, l’aspetto e la voce prettamente riconducibili all’altro genere (Tribunale di Bologna, n. 315/2019 del 6 febbraio 2019). Una grande vittoria, una passo vanti nel rispetto dei diritti, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”.