A stabilire questi principi è la Sezione Lavoro della Cassazione con l’ordinanza 15561/19 depositata il 10 giugno. Nella fattispecie, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è stato rigettato il ricorso di una società del trasporto pubblico locale con la conseguenza che è divenuto definitivo il riconoscimento del risarcimento del danno biologico e morale ai familiari di un operaio specializzato morto di carcinoma riconosciuto dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Roma.
È noto che fra gli anni Sessanta e Novanta del ‘900, l’uso dell’amianto in officina risultava piuttosto comune per la coibentazione di componenti e ricambi dei veicoli e i rischi connessi all’esposizione era anch’esso conosciuto. Non vale anche per la Suprema Corte il fatto che l’azienda deduca che l’obbligo di sicurezza vada parametrato agli standard di conoscenze tecniche disponibili all’epoca dei fatti. Le norme specifiche per il trattamento dell’asbesto sono introdotte in Italia soltanto con il decreto legislativo 277/91, in seguito abrogato dal dlgs 81/2008, tuttavia, la circostanza non scrimina il datore che, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ha l’obbligo di preservare l’integrità psicofisica e la salute nel luogo di lavoro.
La responsabilità dell’azienda non è oggettiva ma non si configura soltanto per violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate: l’imprenditore risponde anche se non predispone tutte le cautele necessarie secondo prudenza, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Il datore nel caso in questione non riesce a dimostrare di avere assunto le misure necessarie per tutelare la salute dei dipendenti anche in assenza di una specifica disposizione preventiva: il rischio da esposizione all’amianto era noto all’epoca dei fatti, come dimostrato sia dalla presenza di pubblicazioni scientifiche già all’inizio del secolo scorso che consideravano pericolose le lavorazioni collegate all’amianto sia dall’adozione di normativa europea (Regolamento n. 1169 e direttiva n. 477 del 1983) che faceva riferimento al rischio di inalazione di polveri di amianto. L’azienda che non è intervenuta in modo netto ha assunto su di sé il rischio di eventuali tecnopatie.