“Il titolo spiega il concetto: il senso di questa mostra è infatti affidato ad un avverbio di luogo e a un pronome personale entrambi indefiniti, entrambi indeterminati: insieme creano una condizione mentale che ruota attorno all’idea di identità o, meglio, di presunta identità. Come a dire che ciò che si vede non è ciò che appare o lo è a patto di spingere l’immaginazione al di là del visibile che, in altri termini, equivale a indicare una sorta di rovescio delle cose.
Gianni Ruggiu e Giulia Sale si sono incamminati con l’obbiettivo fotografico su due binari paralleli fino a incrociare la loro ricerca e scoprire che andavano nella stessa direzione. Uno attraverso una prospettiva dall’alto, con una visione a volo d’uccello, coglie le forme nell’estensione dello spazio, nella configurazione di territori che appaiono sconosciuti perche osservati dall’oblò di un aereo che rende quelle forme compatte e labili, laddove si annulla, nel verticalismo della presa fotografica, la specificità dei dettagli e si definiscono i confini vaghi delle strutture geografiche.
L’altra artista si muove su un piano orizzontale legando insieme, in un rapporto di scelta occasionale, individui e spazi abitati colti nella fortuita presenza di figure che guardano qualcosa mentre noi li guardiamo. L’anonimato è assicurato per tutti, individui, luoghi, sguardi. Lo spiazzamento è completo. Due modalità differenti, quelle di Ruggiu e Sale, per indagare la realtà da un punto di vista ribaltato, dove si stratificano nuovi e inediti significati delle cose. La fotografia diventa, forse più di ogni altro medium, occasione per riflettere sulla percezione del reale. Gianni Ruggiu è un viaggiatore per necessità e come chi è costretto a muoversi ripetutamente nello spazio finisce per pensarlo in termini di tempo.
Il tempo, per lui, è quello dello sguardo che misura le distanze e concepisce i luoghi dal punto di vista della prospettiva da cui li osserva. Prendono vita allora le immagini panoramiche che sovvertendo l’idea della cartolina e della mappa suggeriscono altri orizzonti entro cui configurare il lavoro dell’artista. Ciò che noi vediamo è il corpo terrestre modulato su profili morbidi e sfuggenti, imprendibili eppure chiari, sufficientemente lontani per cogliere le linee delle coste, i limiti della terra e dell’acqua, il disegno della natura così sorprendente da assomigliare a una straordinaria e muta architettura visiva. Niente di più ci è concesso sapere. Nessuna anticipazione della realtà effettiva che si cela nell’intimo di quelle forme. Uno scarto emotivo incolmabile che azzera qualsiasi dato si possegga dei luoghi che ci appartengono: l’immagine catturata dall’obbiettivo fotografico a quella altezza ci pone davanti ad una realtà oggettiva di cui possiamo essere solo testimoni inermi.
L’identità dei luoghi si perde in un lasso di tempo che ci separa dal loro contesto abituale o fortuito, in ogni caso ci dice che il vero problema della conoscenza passa attraverso il punto di vista modificato. La distanza non solo non aiuta, semmai annulla: annulla i rapporti, le emozioni, le identità. Il vuoto prevale sulla pregnanza delle cose. La sintesi visiva catturata dal mezzo fotografico diventa così pura astrazione, incapace di darci la vita delle forme. Che dichiarano comunque la loro esistenza affermandola entro confini cromatici indicatori di spazi che rimangono, a quella altezza, inconoscibili.
Corpi geografici di cui non si può non registrare la bellezza algida di un paesaggio imprendibile nella sua piena fisicità e che solo la macchina fotografica può consegnarci nella sua visione ampia e completa. Il lavoro di Gianni Ruggiu sembra in questo modo inquadrarsi all’interno di quella “estetica dell’impassibilità” ( Charlotte Cotton, 2010 ) che ha attraversato gli ultimi decenni della ricerca fotografica e che pone l’accento sulla “maniera per vedere al di là dei limiti della prospettiva individuale”. L’ottica allargata di questo linguaggio consente e autorizza allora a superare l’apparenza meramente descrittiva dei luoghi per cercare, nelle sponde di questi mari, un ancoraggio al nostro sguardo inquieto.
Forse lo stesso di chi a quelle coste guarda come un miraggio lontano e irraggiungibile, l’altrove come una geografia del possibile, una mappa dei desideri. Il tema dei confini e degli approdi si affaccia al di là dell’impeccabile, fredda e oggettiva modalità visiva. Sul piano della sottrazione sembra muoversi anche Giulia Sale, in un corpus di opere che ha per soggetto l’assenza, qualcosa che crediamo di vedere e che in realtà ci viene smentito. La figura umana colta di spalle in un paesaggio incerto e non connotato proietta il nostro immaginario alla deriva fino a scoprire le implicazioni relazionali che ci legano a quelle immagini. Le composizioni visive che Giulia Sale costruisce attraverso l’obbiettivo fotografico ci pongono dinanzi ad una presenza negata nella sua distinguibile individualità: il profilo appena intravisto, la sagoma anonima e sconosciuta, la sfuggente presenza di qualcuno inafferrabile. Come insignificanti appaiono dettagli trascurabili (un fermacappelli, il foulard, un minuscolo orecchino) delle figure colte in una fisicità qualunque. Eppure questa umanità in transito ci svela qualcosa che di fatto finiamo per ignorare.
Non ci ricordiamo che, oltre il nostro abituale aspetto che passa attraverso il volto, siamo forme composte da altri momenti che pur invisibili ai nostri occhi ci appartengono e definiscono la nostra corporeità, il nostro essere nel mondo. Siamo fatti di confini, di contorni, orli e perimetri di una totalità che può essere osservata da angolazioni molteplici. La fotografia di Giulia Sale ragiona su questa modalità di visione. E adotta un punto di vista straniante. Il taglio dell’immagine, la visione parziale, scandiscono in primissimo piano la forma di quel qualcuno sconosciuto, incontrato durante un viaggio e diventato significativo in relazione all’ambiente di cui è parte, tessera anch’esso di una realtà sfuggita all’inerzia. La sospensione temporale annulla qualsiasi narrazione e ci consegna una parte di mondo come in un frame da video.
O come in tanta storia della pittura ( basterebbe citare Friedrich o Richte) dove la figura di spalle acuisce l’intensità semantica della scena rappresentata. Siamo così in qualche modo costretti dall’impianto strutturale dell’immagine ad adottare lo stesso punto di vista del riguardante che non siamo noi ma che in qualche modo ci rappresenta. Come a dire che noi siamo gli altri, e gli altri, come noi, sono entità fatte non solo di socievolezza e comunicabilità ma anche di aspetti meno noti e significativi che contribuiscono a rendere quel qualcuno una forma che vive nello spazio con cui entra in relazione e di cui è sostanza integrante. Noi siamo tante parti di noi stessi, sembra dire Giulia Sale, nelle figure che attraversano il suo campo visivo, isole dai confini volubili e irrequieti, sfuggenti e instabili, frammenti passeggeri di una realtà in costante divenire o, come suggerisce Viviana Gravano (2012), l’altro da noi come segno, indizio di “una infinita proliferazione del proprio sé”, “una moltiplicazione delle nostre identità”. Mariolina Cosseddu