“La pace, nel senso di assenza di guerra, è di scarso valore per chi sta morendo di fame o di freddo. Non eliminerà il dolore della tortura inflitta a una persona messa in prigione per le sue idee. Non conforta coloro che hanno perduto i loro cari in alluvioni causate dall’insensato disboscamento in un paese vicino. La pace può durare solo dove sono rispettati i diritti umani, dove la gente è ben nutrita, e dove gli individui e le nazioni sono liberi. La vera pace con noi stessi e con il mondo intorno a noi può essere raggiunta solo attraverso lo sviluppo della pace mentale. Gli altri fenomeni sopra citati sono interrelati in modo analogo. Così, per esempio, vediamo che un ambiente pulito, la ricchezza o la democrazia significano poco di fronte alla guerra, specialmente di tipo nucleare, e che lo sviluppo materiale non è sufficiente ad assicurare la felicità umana”
dal discorso di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet in occasione del conferimento del premio nobel per la pace, avvenuto il 10 dicembre 1989
Quando ho visto uomini “mettere a sedere” altri uomini già avevo compreso cosa poteva significare l’approccio al tema della collaborazione, alla pace per non fare la guerra, condividere insieme le proprie unicità, condividere la possibilità di creazione, attraverso la propria “diversità”. Contribuire a creare un mondo di persone che sanno guardare il prossimo negli occhi senza la necessità d’attaccare, aggredire se quel che dice non corrisponde alla loro visione.
Alla luce di una pace mancata e della presunta ricerca, di un equilibrio in grado di garantire a tutti quel bisogno di sicurezza in cui ciecamente tendiamo da sempre, e all’impossibilità di mettere da parte le armi riformando completamente quest’ordinamento bellico che incita all’odio e alla violenza, guardo all’utilizzo delle armi da parte delle forze dell’ordine e mi chiedo: è possibile che un poliziotto sia in grado di schiaffeggiare prima e tirar fuori la pistola dalla cintura nei confronti di un cittadino qualsiasi perché, sentendosi “in dovere”, non riesce a far fronte ad una situazione come questa?
Una conferma all’estremo bisogno di tutti gli uomini: la sicurezza, il modo per raggiungerla, la debolezza umana, la mancanza di Veri strumenti tesi all’Ascolto del prossimo.
Quindi mi interrogherei su quest’episodio e su questo “sentirsi in dovere”, sfilar fuori una pistola perché l’ordinamento, quattro pezzi di stoffa prevedono che tale “potere” possa essere esercitato ad oltranza, che sia possibile utilizzarla in determinati casi. Magari è lo stesso ordinamento a dover essere completamente rivisto, magari quel poliziotto non avrebbe avuto alcun bisogno di utilizzare la pistola per far spostare la macchina al suo simile, effettivamente un altro essere umano. E’ ammissibile da parte di un componente di forze “dell’ordine” ricorrere alla forza di una pistola per far valere il suo diritto alla vita prima, e l’ordinamento statale dopo? Quale ordine stiamo mantenendo e in virtù di cosa? In tempi nei quali parliamo tanto di pace, condivisione, assenza di violenza, tendenza all’assenza di violenza guardiamo a casi che spuntano giornalmente come funghi, di componenti delle forze dell’ordine che non sono in grado di garantire l’ordine che tanto abbiamo desiderato per le nostre vite, le persone attorno a noi. Di quale sicurezza andiamo parlando se questi stessi si sentono autorizzati a fare qualcosa di non-umano?
Il mitra in mano ad un bambino è violenza, il mitra in mano ad un uomo, per qualsivoglia motivazione, è violenza, nella sua più pura accezione. La violenza genera altrettanta violenza e gli “esempi” di violenza non fanno altro che accelerare un meccanismo disfunzionale alla crescita psicologica, spirituale delle persone.
Cercare la sicurezza con la violenza non ha mai portato ad alcuna risoluzione.
Spesso e volentieri siamo riusciti, attraverso azioni diplomatiche, ad ottenere una soluzione più congeniale per tutti, senza mai ricorrere alla violenza, pensare di poter arrecare male ad un altra persona, far soffrire un altra persona per riuscire a “farci rispettare” (rispettare cosa?). Questo mentre l’opinione pubblica ancora si chiede, giornalmente davanti alla lettura del quotidiano che parla di migrazioni, politici che distolgono l’attenzione dalle vere e basiche preoccupazioni che affliggono in profondità, per le quali ci schieriamo ancora troppo in pochi e per quel poco che è possibile fare.
“La consapevolezza che siamo fondamentalmente gli stessi esseri umani, che cercano la felicità e cercano di evitare il dolore, è molto utile per sviluppare il senso di fraternità e il caldo sentimento d’amore e di compassione per gli altri. Questo è a sua volta essenziale soprattutto se vogliamo sopravvivere nel mondo in cui viviamo, un mondo che diventa ogni giorno più piccolo”
dal discorso di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet in occasione del conferimento del premio nobel per la pace, avvenuto il 10 dicembre 1989
Tutte le organizzazioni non governative, le associazioni di categoria che si spostano nei territori africani inviano un messaggio apparentemente invisibile ma abbastanza lampante che suona come un eco tuonante al mondo occidentale: le armi sono violenza. Negli stessi territori, protagonisti di violenze interne, avvengono episodi che vorremmo non rivedere più, perché desidereremmo essere delle persone nuove che non accennano, alla prima parola d’affronto, alla violenza, ma che cercano la via più diplomatica di dialogo: il dialogo. Nel mondo occidentale sta mancando, sempre più, un dialogo che parta dalla concezione prima d’Amore, Ascolto verso il prossimo, diplomazia bi-laterale. Sarebbe troppo chiedere una connessione fra mentale e spirituale, fra Mente e Cuore? E’ possibile, è importante che avvenga per ri-trovare quella Semplicità della quale tutti sembriamo esserci scordati da tempo, sempre più insistente, sempre più Vera.
C’è differenza tra il componente delle forze dell’ordine che tiene in mano una pistola ed il politico che propaga idee, convinzioni, pensieri di violenza verso connazionali e non connazionali soltanto per “farsi sentire“? Che differenza c’è fra il delinquente che, in mezzo alla strada, si sente “in dovere” di compiere un azione provocatoria, di sdegno nei confronti dei suoi aguzzini (le persone che non lo ascoltano) mentre si crea, nel frattempo, una linea asimmetrica fra le sue aspirazioni e le aspirazioni del poliziotto che vorrebbe far rispettare la legge, simmetrica in apparenza, fintamente simmetrica, diremmo: non sembra possibile parlare di ordine all’interno del disordine, mentre assistiamo a disparità sempre più evidenti e sempre meno concepibili per una società che richiede e che muta, continuamente, mantenendo i propri desideri, le proprie speranze di pace, di benessere.
“Proviamo un senso di tristezza quando dei bambini muoiono di fame nell’Africa orientale. Analogamente, proviamo un senso di gioia quando una famiglia è riunita dopo decenni di separazione a causa del muro di Berlino. Le nostre messi e il nostro bestiame sono contaminate la nostra salute e la nostra stessa vita sono minacciate quando ha luogo un incidente nucleare a molti chilometri di distanza in un altro paese. La nostra sicurezza aumenta quando scoppia la pace tra parti belligeranti su altri continenti”
dal discorso di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet in occasione del conferimento del premio nobel per la pace, avvenuto il 10 dicembre 1989
Potremmo anche chiederci quali che siano le motivazioni che spingono i ragazzi al reclutamento, quale la loro storia e l’accertamento di queste durante il reclutamento. Ed in ultimo: possiamo insegnare ai bambini la pace tra i banchi di scuola, l’accoglimento, i princìpi universali di condivisione, riconoscimento dell’altro se non siamo in grado di garantire loro un esempio concreto?
Daniele Fronteddu