Lasciar andare il meccanismo di paura è funzionale soltanto nel momento in cui prendiamo coscienza che quel coraggio, spesso ottenuto per emulazione, non appartiene all’altro. Il senso del “limite” ha costretto il cuore all’impossibilità d’espressione, confinando ad un piccolo spazio anche la possibilità di un vero dialogo tra le nostre parti, spesso scisse l’una dall’altra, e con l’altro che non fosse soltanto un incontro-scontro, ma un guardarsi senza più veli accessori: un incontro cuore a cuore, in presenza di un vero equilibrio fra mente e cuore. Abbiamo imperniato la mente del senso, giustificato e dovuto, di “giusto o sbagliato” che ha finito per fare da sfondo costante ai pensieri, alle sensazioni, sempre in relazione a quella tensione d’aspettativa dell’altro, in ricordo al senso di appartenenza che avrebbe comportato la nostra sicurezza, la stessa che visualizzavamo dentro come un “rifugio” dal quale avremmo potuto guardare il mondo, scoprirlo, viverlo secondo una prospettiva sempre meno rischiosa, più serena: la vita ha frapposto però degli ostacoli alla nostra felicità sui quali non immaginavamo nemmeno imbatterci, tanto abituati al bello e stabile, alla sicurezza del vivere.
Una vera comunicazione mai avvenuta quella fra noi e l’altro, di fatto, a partire dalle istituzioni che avrebbero dovuto garantire quella possibilità all’espressione propendendo verso un nuovo modo di pensare, concepire la vita: infondo nemmeno loro avrebbero potuto, essendo parte attiva, quanto passiva, di questo infinito loop di incomunicabilità. Saper comunicare non è semplice quando alla parola non si accompagna l’Ascolto. Imparare ad Ascoltare, lasciando da parte, per un attimo, le paure e prendendo per mano l’unica possibilità altrimenti esistente chiamata “ricezione“, la ricezione della parola dell’altro a scanso del pregiudizio, apparentemente radicato, agganciato a propositi di benessere basati sull’ascolto che non è mai avvenuto, a scanso di tutte le pseudo sicurezze che andiamo inseguendo e che rendono apparentemente la nostra vita degna d’esser vissuta, avendo dato un senso al nostro vivere (in relazione all’esistere dell’altro), a quel che fuoriesce dall’usuale o dal contesto, dalle comuni convenzioni, diverso, inafferrabile (tanto l’altro quanto le stesse concezioni, forse troppo avanti per le nostre, legate al passato) talora suscitando in noi un senso di ironia, palese manifestazione di quell’imbarazzo, disagio che avvertiamo, come fosse un campo desolato, all’approssimarsi di quel vuoto pneumatico che scardina ogni nostra certezza: è un modo per progredire, lasciando le presunte sicurezze indietro, il passato ormai disfunzionale all’ingresso sul nuovo sentiero. Al bambino non è stata data la possibilità di conoscere quel che è diverso, tutt’ora tende ad ironizzare su quel che non conosce, considerandolo pura fantasia, rinunciando così alla scoperta di tutto quel che potrebbe conoscere, ma che oppone, per paura di cadere. Si tratta di una sensibilità non accolta, non riconosciuta, che rifiuta di guardare il mondo da un altra prospettiva: ecco perché la crescita in questo senso, invertirebbe un ordine fondato sull’assenza di verità apparentemente non evidenti, perché escluse dal consolidamento di un raziocinio che continua a scadere nel basso, come basse sono le conseguenze, quasi prevedibili, dovute a questa stessa assenza.
Crescere tra le imposizioni educative vessatorie basate sulla paura, specchio di una società che ha sempre sentito crescente la pressante necessità di una regolarizzazione, rivelatasi alla lunga una spada a doppio taglio e specchio di quella vecchia necessità che ha protratto in avanti la repressione della paura alla stregua di quella paura che ha comportato “l’esclusione, quasi immediata, del non riconoscibile“, dell’apparentemente inspiegabile, ha messo da parte anche la possibilità all’azzardo, ritenuto un pericolo, ad esclusione di quel salto qualitativo in avanti, apertura delle possibilità a nuove concezioni, più funzionali alla nostra stessa esistenza, spesso nell’inconcludenza di una posizione fine a se stessa, impossibilitata all’inversione, al cambio di paradigma, prima nelle scelte delle figure di riferimento, incaricate alla salvaguardia ed alla “protezione” del nostro benessere, contestualmente agli irreversibili ultimatum degli operatori addetti alla “sicurezza”, alle sentenze, passate in giudicato, tese alla configurazione, alla realizzazione di quella verità che non è mai stata conosciuta, perché mai ascoltata, mai accettata in noi. Quegli imperativi volti alla garanzia della nostra persona, dei nostri interessi, non avrebbero potuto far progredire la società in una direzione del completo benessere (non più solo appagamento materiale).
Rischiare sembra la parte più importante della nostra vita: come scegliere di vivere il nostro presente in relazione ad un passato ormai inesistente che tendiamo a reiterare, e quelle stesse abitudini alle quali potremmo rinunciare in qualsiasi istante, nel momento in cui desideriamo ardentemente fare quel passo in avanti che veda schiudersi, davanti a noi, le infinite possibilità di una vita immensa e sconosciuta, la quale immaginavano non meritare perché troppo “presenti al passato”, ai meccanismi binari di buono/cattivo, giusto/sbagliato, corretto/scorretto che, alla prima occasione utile, hanno rivelato essere delle falle al nostro vero benessere. Bianco e nero, necessari alle gradazioni, hanno finito per diventare gli unici sostituendo tutte le altre, permeando la nostra visione del mondo, senza nemmeno accorgercene. A fronte di un ambiente assente di stimoli, che mai ha potuto riconoscere la nostra singolarità, la nostra intimità, avremmo avuto come unica possibilità lo sviluppo di questa vision utilizzando vie traverse, ma sempre disfunzionali, per davvero, guardando al collettivo nel quale stavamo desideravamo nuotare, talvolta finendo per “accontentarci” di quel piccolo mondo e rinunciando a quanto la vita avrebbe potuto offrirci. La paura di sbagliare, accompagnata dalla tutela della stessa, ha finito per infliggere più danno e compromettere, passando l’arma sulla piaga, il vero desiderio alla scoperta del mondo e delle sue bellezze, anche e soprattutto invisibili. Quando hai iniziato a pensare che il mondo attorno avrebbe potuto farti del male? Cosa avresti desiderato per te stesso che nessuno è mai riuscito a darti? Cosa saresti disposto a fare per avere quel che desideri e quando vorresti iniziare?
Molte cose potrebbero funzionare, ma non funzionano nel momento in cui avviene l’intima esclusione, dalla parte razionale, dei nostri profondi desideri, che rimangono spesso di la da una quotidianità vissuta come uno sfondo di regole, restrittive, un labirinto, conosciuto e sconosciuto, una realtà quasi in bianco e nero, dalla quale la nostra essenza tende a rimanere fuori. Escludere noi stessi dal benessere, dalla ricerca di quell’equilibrio che non fa più paura, significa escludere l’altro.
La scelta sta nell’accettare il rischio di quel che fuoriesce dai soliti schemi conosciuti ad oggi (condizionamenti) o lasciare che ancora questi stessi possano incidere fino a precluderci quel salto di qualità che, invece, è richiesto per iniziare a Vivere. Nessuna delle persone attorno potrebbe mai trovare una risposta che sappiamo avere soltanto noi, in profondità, in quanto l’altro, per quanto in apparenza differente da noi, nei suoi pensieri, nei suoi ragionamenti, siamo noi. Sembra un paradosso, come potrebbe esserlo affidarsi così tanto alla ragione: infondo, stare soltanto nella mente significa anche questo. Spezzare quel circolo vizioso che vede il bambino e l’adulto non capirsi per impossibilità di comunicazione dell’uno sull’altro, significa mettere in discussione la possibilità che le cose, apparentemente così funzionali e ritenute tali, debbano necessariamente procedere in una direzione, entrata a far parte delle comuni convenzioni, così vicine e lontane dall’intima verità che caratterizza la vita di ognuno. Nel momento in cui realizziamo la profonda mancanza di quest’aspetto, da integrare per ritrovare l’equilibrio, la collaborazione fra parti scisse, non avremo più motivo di giustificare un riconoscimento che non è mai avvenuto, rinunciando, a tutti i costi, a quella frase scritta base, a quel puntino messo al posto giusto, infondo, uscire dalla righe potrebbe significare rinascere a nuova vita. Il nostro compito potrebbe essere quello di guardare alle persone e ai modelli del nostro passato che hanno fatto nascere quegli imperativi categorici, ad esclusione d’espressione di quella luce che ha sempre caratterizzato il nostro essere, allontanandoci, gradualmente, da quegli scogli, ai quali puntualmente tendevamo ad aggrapparci perché non sapevamo nuotare, immaginando di non avere alternativa, che avremmo invece potuto superare.
Daniele Fronteddu