Utilizzare un linguaggio aulico nel momento in cui, professionalmente, avvertiamo la necessità di svolgere un lavoro, come quello giornalistico, non è poi così tanto importante: le cose più semplici non richiedono un registro alto, e per questo potremmo anche raccontarle con un immagine, un aforisma, uno sguardo – la semplicità non richiede grandi argomentazioni, tante parole. Gli stessi messaggi che vengono insabbiati dalla prepotenza della razionalità finiscono, puntualmente, per mancare di sostanza, non permettendo il superamento di quelle paure che, nel frattempo, stiamo “combattendo” e che affliggono tanto noi, quanto le persone attorno. Guardiamo ad una delle nostre tante giornate, una qualunque, magari nel momento in cui stiamo facendo la spesa. Arrivati alla cassa osserviamo il viso del cassiere, così serio nello svolgere meticolosamente il proprio lavoro. A malapena riesce nel guardarci in faccia: è comprensibile che, nella quotidianità, possano verificarsi momenti nei quali viene a mancare quell’allineamento con la nostra essenza, ma quando, in sottofondo, viene a mancare un vero collegamento fra il nostro essere e le nostre azioni? La mancanza di un vero e proprio senso alle nostre azioni, in capo al mancato riconoscimento della nostra essenza, di quel vibrante desiderio alla vita, unitamente a quanto sentiamo essere una “disposizione, un obbligo, quasi vessatorio che non lascia via di fuga“, direziona i nostri pensieri verso una percezione falsata dell’altro (il meccanismo della paura), perché convinti che non possa comprendere quanto stiamo facendo, l’impegno profuso nell’adempimento e cadiamo, come prevedibile, nelle solite vecchie dinamiche: rabbia, rancore, risentimento, riflessi di quell’Ascolto che desidereremmo vedere, sempre, al di fuori di noi. Ma noi, per primi, Ascoltiamo quella parte che desidera trasmettere, condividere all’altro la gioia di svolgere il lavoro, la mansione? Quanta gioia mettiamo in quello che facciamo?
Guardare all’altro osservandone la forma, il colore, il linguaggio, unicamente facendo affidamento sulla nostra singola concezione del mondo – creata e consolidata, negli anni, mediante le interazioni avute con l’esterno – pur prendendo atto che questa stessa non corrisponde alla realtà, valorizzandola, esaltandola, proteggendola nell’intento di “utilizzarla come scudo” al fine di dissimulare la paura, non soltanto non è funzionale alla nostra crescita, ma non richiama a noi la forza che, invece, servirebbe ad apportare quelle modifiche utili al rinnovamento dell’altro, di una società non più basata sull’apparenza pregiudizievole, ma caratterizzata, invece, dal contatto “umano” con l’altro. Una bella lezione da imparare.
Nonostante tutti i tentativi fatti e in essere, la società continua a muoversi, quasi scalciando, in questa direzione, ancora facendo affidamento sull’apparenza, quale unico alibi atto a screditare la presenza dell’unico vero motivo al pregiudizio: la Paura. L’attuale regolamentazione, funzionale a dare forma al corpo, rivela una profonda falla non in grado, purtroppo, di incentivare la visione per la quale tutti dovremmo iniziare a riflettere e lavorare, iniziando a guardare alle nostre parole, azioni, sotto una luce carica di positività, nel comune intento di raggiungere quella tanto bramata pace che può arrivare soltanto guardando, onestamente, alle nostre profondità. Nel momento in cui quello che tendiamo a definire come un “piccolo mondo” viene ad incontrare, per necessità, il mondo dell’altro, una terza verità sembra crearsi, un ponte di collegamento fra le parti, vissuto ora come un arricchimento di vedute, ora come uno scontro, intensivo e logorante. La libertà delle parti che s’incontrano, in capo ad un contesto integrato che prevede ordinamenti, regolamenti, atti a stabilire quel tanto desiderato “ordine“, ricercato con mezzi privi di Umanità, passato alle persone come un imperativo categorico, astratto e decadente, trasforma il profondo desiderio alla stessa, che dovrebbe essere vissuta dal singolo come espressione di tutte le proprie parti interiori integre, in una sorta di prigionia, giustificata dall’incessante presenza, in sottofondo, di quella paura, alimentata dagli stessi media che, nello svolgimento della professione, per “dovere di cronaca” continuano a diffondere notizie di suicidi, omicidi, spesso crudeli ed efferati: quelle che potevano risultare sottigliezze, invece così tanto importanti per il singolo, profondamente inascoltato, vanno a depositarsi sulle altrettante ferite personali che, nonostante riguardanti l’altro, vicino o lontano, alimentano dolore, frustrazione, alimentando il meccanismo di paura, spesso traducendosi in vere e proprie rivoluzioni, di minore o maggiore entità, nonché sofferenza per quella fascia di popolazione che manifesta, giorno per giorno, la necessità di quel Riconoscimento, basato essenzialmente sull’Amore (Ascolto). Laddove un dolore non potrà, per un motivo o l’altro, esplodere in un senso, lo farà nell’altro, secondo la profondità e l’intensità della ferita.
Siamo cresciuti in famiglie dove abbiamo appreso, a diverse sfumature, l’arte della diffidenza, la segretezza, come prerogative ad una vita nella società, giustificata dalla stessa legge che, sulla scia del vecchio meccanismo, continua a giustificare una modalità che si allontana di molto dal vero princìpio di Umanità. La trasmissione di insegnamenti così tanto paradossali, in netto contrasto e fuori da qualsiasi logica, non crea un indirizzo valido, un orientamento gratificante rivolto, per la verità, alla ri-scoperta dello stare al mondo (e dell’essenza universale dell’Amore), creando tutte le forme d’espressione della paura che tanto affliggono le persone.
Un altro pregiudizio al quale, ancora, tendiamo ad ancorarci è immaginare, credere che semplici messaggi debbano, necessariamente, passare argomentazioni ben articolate, ricche di termini ricercati comprensibili ai più: in questo modo contribuiamo, ancora di più, nell’alimentare il disequilibrio mente-cuore, maschile-femminile.
Prima l’infanzia, poi l’adolescenza, in un continuum senza fine, mentre genitori, parenti, insegnanti iniziano ad abbandonare l’idea della nostra immaturità e, contemporaneamente, insegnano ad avere paura dell’altro, la chiusura al mondo facendo passare un semplice messaggio che, ancora oggi, echeggia nel nostro profondo: “il mondo è cattivo“, “non puoi fidarti dell’altro“, “attenzione, non puoi dare tutto te stesso all’altro perché finirà per farti del male, tradire le tue aspettative“. A queste se ne aggiungono, più o meno marcate, altre più categoriche che spesso tendono, dentro, all’imperatività “l’uomo e la donna devono vestire in un certo modo“, e ancora “l’uomo e la donna, per sembrare eleganti, devono vestire in un determinato modo“, “lo sportivo, il casual devono vestire in un determinato modo”, frattanto che, nella mente inconscia, vanno a rinforzarsi quegli insegnamenti, quelle parole che danno forma al concetto contundente di “giusto e sbagliato” – i must, utilizzati quasi involontariamente, da persone di ogni estrazione sociale, unitamente a queste concezioni, hanno sempre avuto un risultato del quale, ancora oggi, distrattamente sembriamo non accorgerci, nel momento in cui accendiamo la televisione ed ascoltiamo quelle stesse notizie, inevitabili conseguenze di una società che vede allontanarsi, sempre più, il desiderio dalla sua soddisfazione, il singolo dalla collettività, la mente dal cuore, limitazioni a cui seguono tutte le forme di violenza tese alla protezione, alla sicurezza. In questo senso, l’interiorizzazione di quel concetto di ordine che dovrebbe rispondere al senso di paura, giustificandone, ancora di più, il mantenimento in vita per dissimulazione, finisce per alimentare un altro aspetto per il quale, ancora paradossalmente, stiamo lottando: l’abbattimento del pregiudizio, la costruzione di una società unità senza esclusioni di sorta.
La possibilità di superamento di quel limite alla percezione dell’altro non può essere superata se non mediante la presenza di validi esempi atti a dare corpo, da una parte, ad un approccio basato sulla Fiducia (Unità con l’altro che porta alla caduta delle aspettative – le continue, mancate richieste d’attenzione verso noi stessi che desideriamo dal prossimo), dall’altra, al rilascio della paura (pari passo al riconoscimento del princìpio di Umanità che non contempla la necessità all’intimidazione – logicamente, nel momento in cui viene a crollare il meccanismo sul quale poggia la difensiva, crolla anche la necessità dell’attacco).
D’altronde abbiamo imparato il conformismo fin dalla scuola dell’infanzia, elementare, superiore, in mancanza di un modello in grado di accogliere le nostre diverse sensibilità, nel frattempo che sentivamo dover emulare i nostri compagni, apparire quasi come loro. Accadeva prima ancora da bambini, nell’imparare a leggere e scrivere “all’interno delle righe” (paradossalmente le stesse che, tendenzialmente, ripercorriamo mentre camminiamo sui marciapiedi, alla guida, tracciando abitudinariamente gli stessi percorsi). C’è stata la necessità di creare e mantenere quella zona di comfort che avrebbe garantito la sopravvivenza, sulla distanza con l’altro, dell’attaccamento ai nostri interessi, spesso ritenuti parte di quella cerchia dal quale l’altro (che invece avremmo desiderato rendere partecipe), automaticamente, sarebbe rimasto escluso, il proseguimento della nostra carriera (spesso entrando in competizione, conflitto con il nostro “superiore”, il collega, talora visto come l’antagonista di turno – avremmo trovato, comunque, un riflesso di quella paura nascosta, in profondità). Questa meccanica ha funzionato e tuttora funziona, in ogni settore della società, adottata a pieno titolo per “riconoscere le paure, presenti in noi e nell’altro“.
Abbiamo, in questo senso, fatto in modo che nuove concezioni, pensieri liberi, tendessero ad assumere una forma geometrica fin troppo spigolosa, inflessibile: il quadrato, sicuro ed inattaccabile, entro il quale vorremmo vivere, paradossalmente cercando e respingendo quel prossimo che immaginiamo ancora possa farci del male. Inutili drammi che nascono, sempre, da un errata percezione dell’altro, giustificata dalla legislazione stessa che tende ora alla convergenza, ora alla divisione negli intenti. Infondo, i protagonisti siamo sempre e soltanto noi, in quanto detentori di quel sentimento condiviso di sfiducia del prossimo che, nonostante l’appoggio al sistema precostituito, abbiamo la possibilità di cambiare. Questo avviene nell’esatto istante in cui realizziamo che il nostro stare al mondo, il nostro lavoro, le nostre relazioni, la nostra formazione, le nostre vittorie e le nostre “sconfitte” non sono dovute al caso e non hanno scalfito, in nessun modo, la verità che sappiamo avere dentro fin dalla nascita, il senso alla vita che potremmo ritrovare soltanto mettendo da parte tutti quei pensieri assillanti, quanto riteniamo essere “così importante” ai fini della nostra “sopravvivenza” nel mondo che, invece, dovrebbe essere un Vivere la Vita in ogni istante al massimo delle nostre possibilità, celebrando un Presente fatto di semplicità ed armonia. L’incontro-confronto con l’altro tende, spesso, a trasformarsi in uno scontro, distruttivo e cavilloso, al fine di giustificare, quanto più possibile, la profonda presenza di quella paura che, invece, se compresa ed accettata, potrebbe trasformare per sempre la nostra vita. Pezzi di vissuto della nostra quotidianità che consideriamo ancora parte di quell’antico retaggio, concezioni convenzionalmente ancora ritenute “normalità” del vivere che fanno da sfondo a tutti quei contesti, sobborghi dimenticati della società, dove ancora si registrano atti di “devianza da combattere”. L’apertura alle nuove concezioni dal nostro modo di vedere il mondo, iniziando nel lasciare andare quell’attaccamento alla contestualizzazione che scade nell’esclusione di quanto non riusciamo a “riconoscere”, è il primo grande passo verso il superamento di quelle vecchie paure.
In questo senso, dovremmo iniziare a guardare alla paura dell’altro come ad un opportunità per la scoperta di quel che ancora non conosciamo, e non certo come a un impedimento al desiderio di guardare al di la dell’orizzonte.
Daniele Fronteddu