Spesso, per via dei condizionamenti familiari, parentali, sociali che impediscono alla nostra parte più profonda che tende alla solidarietà, al riconoscimento dell’altro, non abbiamo nemmeno il coraggio di alzare gli occhi e dire una parola, una qualsiasi, immaginando di poterne fare a meno, della presenza dell’altro (infondo, questo sembra accadere), spesso intenzionalmente, abitudinariamente, soffermando l’attenzione a quel “piccolo conosciuto“, quelle quattro mura nelle quali siamo cresciuti (e che tendiamo a riproporre oggi – le porte, fisiche ed emotive, che si chiudono, conferma alla chiusura della comunicazione fra noi e l’altro), le emozioni stesse, [il ricordo] della paura dell’esposizione (l’interazione con l’altro – gli schemi comportamentali da ripetere, i condizionamenti familiari ai quali non riusciamo a sottrarci), la preclusione alla vera Felicità. Ri-conquistare quel potenziale di auto-ironia (non prendersi troppo sul serio) significa percorrere, in senso contrario, il sentiero che conduce alla nostra piena realizzazione (interiore), intimamente connessa con l’esterno, il flusso della vita che scorre – ritrovare il nostro bambino interiore. La serietà (l’utilizzo dell’emisfero sinistro, la parte logico-razionale) ha rappresentato, nella nostra vita, una devianza verso preoccupazioni, timori infondati, che hanno finito per assorbire la quasi totalità del tempo, della nostra quotidianità: abbiamo dato più importanza all’altro ma in termini di “aspettativa”, riconoscimento esterno.
Come possiamo comprendere l’altro, le sue intenzioni, ascoltarne la verità alla stregua della prima grande negazione all’Ascolto, quella verso noi stessi? Manca l’incontro nella presenza, una presenza ancorata ad un passato dal quale fatichiamo ad allontanarci.
Abbiamo avuto dei modelli di riferimento mancanti di tale modalità, allo stesso modo in cui sono stati cresciuti. I condizionamenti non possono essere aggirati ma riconosciuti: proiettiamo adesso su figli, nipoti, pronipoti, in positivo quanto non abbiamo avuto la possibilità di realizzare, in negativo i risultati delle passate esperienze che hanno segnato la nostra vita, reiterando un ciclo-circolo senza fine. Quale potrebbe essere il senso della serietà in una società apparentemente sempre uguale, caratterizzata da quegli stessi imperativi che in passato hanno precluso il raggiungimento della pace, quell’osannato equilibrio d’intenti fra parti? Il vecchio modello processuale, penal-processuale (ancora in essere) regolativo dell’ordine su cui fonda la società civile, quale conferma di questa profonda mancanza.
Utilizziamo modelli legislativi antichi di millenni pur sempre funzionali allo svolgimento di un ordine comunitario cosiddetto “civile” basato sull’equilibrio delle parti mediante coercizioni punitive quasi “naturali”, giustificate (meccanismo dell’intimidazione – cit. disequilibrio asse prevenzione primaria-terziaria), che tacitamente costringono le persone al lascito testamentario della propria felicità, relegandole all’angolo di quel labirinto di specchi dove tutti camminiamo senza riuscire a “riconoscerci“, quasi fossimo spettri: un gioco di specchi caratterizzato dall’assenza di un inizio ed una fine (mancanza di baricentro), dal rifiuto di un cambiamento (ostinazione sui vecchi schemi) neanche tanto profondo, la difficoltà della messa in discussione da parte delle rappresentanze politico-istituzionali che tendono al mantenimento dello status quo. Potremmo chiederci: qual’è il motivo di tanto attaccamento ai cliché, alla convenzionalità? Cosa significherebbe lasciarsi andare?
Sarebbe preferibile pensare ad un modello di comunicazione alternativo, nel frattempo chiedendosi come possa coesistere un simile avanzamento progressivo nel campo della psicologia, della comunicazione ad un sistema politico (e legislativo) che disconferma in toto tutto questo? Può trattarsi di strade tanto parallele quanto apparentemente divise.
Se psicologo: ti sei mai chiesto cosa potrebbe avvenire qualora dovessero mettere in discussione la tua posizione per un salto di qualità che veda te, i tuoi pazienti e quanti ruotano attorno alla tua professione, procedere a passo sostenuto non soltanto verso i tuoi stessi obiettivi, ma anche, e soprattutto, verso quelli delle persone con le quali lavori? Se operatore giudiziario: hai mai pensato che la prerogativa prima del tuo settore, qual’è il princìpio di equilibrio egualitario, possa essere raggiunto attraverso il rilascio dell’attaccamento alla posizione? Altre domande utili potrebbero essere: perché sto svolgendo questo lavoro? Cosa mi spinge a dedicare le mie energie, il mio tempo alla causa? Ho davvero riconosciuto me stesso? Potremmo rimanere sorpresi dalle risposte.
Il raggiungimento dell’equilibrio non è un processo che inizia dall’esterno, piuttosto una dinamicità fra esterno ed interno, per mezzo dello scambio di feedback funzionali alla crescita interiore (esteriore). D’altronde, la società continua ad inviare richieste d’attenzione, di cambiamento ad un livello che non è più riconoscibile.
Come possiamo parlare di benessere, equilibrio (ordine) in una società caratterizzata, per la stragrande maggioranza dei casi, dalla mancanza di una vera comunicazione? (un inseguimento reciproco a vuoto): l’equilibrio fondato sull’apparenza non è equilibrio. Vivere in equilibrio significa aver dapprima unito tutte le parti scisse al nostro interno (separazione da se stessi) – quanto esiste al di fuori come riflesso di questa separazione – allora viviamo la quotidianità, i diversi contesti sociali, alla ricerca di quell’equilibrio perduto (cit. l’intero apparato penalprocessuale, il rispetto della legge, la concezione di rispetto – il profondo bisogno alla separatività come conseguenza di un incontro che non è mai avvenuto), nella sicurezza che qualcun’altro possa “far chiarezza“, “sistemare” le cose a nostro favore (utilizzo della legge come giustificazione alla nostra negligenza – sembra molto complesso, in realtà davvero molto semplice, comprendere che gli stessi operatori giudiziari versano nelle stesse nostre condizioni. Come possiamo guardare alla legge, nello specifico, al sistema penalprocessuale, come unica modalità possibile per l’ottenimento di questo riconoscimento? Possono essere ritenuti diritti quelli ottenuti per mezzo dell’esclusione dell’altro, delle giustificazioni?). Come possiamo pensare di raggiungere l’integrità con l’altro (ordine sociale) senza aver assolto a quest’importante lavoro per noi stessi (anche un opportunità)?
I progressi in ambito psicologico sono arrivati a definire le migliori strategie atte alla risoluzione, tuttavia la presenza di divergenze fra gli stessi professionisti (conferma della separatività fra figure – la mancanza del profondo riconoscimento), non permette la convergenza ad un intento comune (come perdere più tempo nell’individuare la soluzione ottimale – bisognerebbe stabilire cosa fare, per davvero, se unire le strade al fine di una soluzione che possa andare bene per tutti, oppure continuare a divergere nelle opinioni, negli indirizzi, alla ricerca del metodo più “funzionale” per la soluzione dei casi).
La messa in discussione della propria posizione sociale è indicativa nel processo di compresenza all’Altro.
La semplicità non richiede tanti giri di parole, ma tutte le forme di attaccamento (paura), come punto in comune per la quasi totalità delle persone, non permettono il venire a capo di questa situazione: in questo senso potremmo guardare a tutti i sistemi precostituiti, iniziando da quello deputato alla garanzia dei diritti delle persone, come una cattedrale nel deserto. Quanto è vantaggioso rimandare un lavoro su se, nel momento in cui realizziamo l’interconnessione fra noi e l’Altro?
Si guarda ad un rinforzo positivo, alla possibilità di alleggerire il carico di lavoro per mezzo di quest’opportunità che diversi psicologi già utilizzano nella propria professione, conseguenza della riduzione di questa “drasticità” che caratterizza, soprattutto, il personale delle forze dell’ordine. Una spada a doppio taglio, l’attuale ordinamento difesa-sicurezza che conduce, inevitabilmente, alla separazione (specchio della divergenza ideologica politica, del mancato riconoscimento, da parte delle istituzioni, del princìpio di Umanità). I pro e contro sono riscontrabili quasi nell’immediato: parlare di Umanità (mancante per via della presenza del meccanismo di paura) in relazione alla ricerca di quegli ideali che, sempre più spesso, sono da ricercare nelle mancanze verso noi stessi, in vicinanza a fatti di cronaca nera dai quali tendiamo a prendere le distanze, alla quotidianità di una società carente di una valida rappresentanza politica, spirituale (scissione della spiritualità dalla quotidianità – incapacità di un’incontro nella comunicazione sotto l’aspetto psicologico-spirituale – continuo tentativo di guardare l’Altro) di figure veramente atte a rispondere a quel vuoto che caratterizza la vita delle persone, può aiutare nel prendere coscienza di questa mancanza: possiamo fare qualcosa per iniziare a cambiare, ognuno?
Il vuoto di cui parliamo continua ad esserci, nonostante tutti i tentativi fatti per arginare, mediante sicurezze esterne, tutte quelle situazioni di “terrore” o “pseudo-terrore“, scene di guerra che non vorremmo più rivedere, interne ed esterne, innescate dal meccanismo dell’intimidazione (talvolta per mezzo di comportamenti da parte delle stesse forze armate – cit. abuso di potere). Situazioni vissute da ognuno, nelle famiglie, con il partner, l’amico, il collega di lavoro. Parlare di psicologia può essere un aiuto ma, alla luce di una comunicazione così disattenta, non sembra risolutivo a fronte di contesto sociali tendenzialmente mossi dalla paura dell’agire, insofferenti al concetto di ordine, di sottofondo ad una legislazione che dovrebbe garantire primariamente il princìpio fondamentale della vita: la massima espressione dell’individuo. Come può l’individuo esprimere massimamente la propria natura, celebrare la vita se coesistono, contemporaneamente, contesti basati sulla paura d’azione? (cit. asse prevenzione primaria-terziaria)
La legge non dovrebbe essere basata sulla paura, ma gli esiti, nella realtà dei fatti, in riferimento agli episodi di cronaca nera che leggiamo sui giornali, confermano una risposta che vorremmo allontanare dagli occhi: è una realtà che abbiamo creato e continuiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, a mantenere in vita. Tendiamo alla paura perché non siamo mai stati abituati ad Ascoltare (non siamo mai stati Ascoltati, Riconosciuti nel Sentimento, nell’Emozione): guardiamo alla separazione fra noi e l’altro, procedendo per associazione – la Fiducia viene, quindi, da un atto di Coraggio o soltanto dal Riconoscimento di se stessi?
I fraintendimenti sono parte di un processo comunicativo, limitato o mancato, finalizzato all’altrui conoscenza (ritorno all’Unità – Riconoscimento attraverso l’altro): la separazione, quale costume di circostanza, con l’avanzare del progresso, rivela la disfunzionalità per una crescita più profonda dell’essere umano in rapporto alla comunità. Il rispetto, termine separativo utilizzato nell’intento di sottolineare l’importanza dei valori etico-morali di un determinato contesto (scadente nel momento in cui realizziamo, attraverso l’Unità con l’altro, un senso di profonda completezza), è rinsaldato da procedimenti tesi alla distanza con l’altro (paradosso), vissuto come minaccia per se, i propri attaccamenti (vecchio modello).
La divisione esteriore specchio di quella interiore: se la mancanza è così evidente, come può un qualsiasi operatore giudiziario (o addetto alla sicurezza), in mancanza di specifiche competenze (e del proprio riconoscimento), poter pensare di comprendere l’altro? Non faremmo altro che applicare la legge e nulla più, dov’è l’aspetto umano in tutto ciò? L’attuale legislazione non contempla questo termine: quel meccanismo nato per garantire il diritto all’espressione dell’essere umano scade nella separatività, spesso nella banalità d’utilizzo (abuso della legge – ottenimento dei propri diritti, il proprio riconoscimento, unicamente per mezzo della legge). L’Ascolto è qualcosa di molto semplice per chi ha già compreso cosa significhi Ascoltarsi: gli attuali ordinamenti prevedono la contemplazione della parola Compassione? Quanto investiamo in termini di energia, tempo nel dare all’Altro? In una società multiforme come la nostra che tende all’apparenza delle competenze, frutto del processo di civilizzazione, del progresso scientifico e tecnologico, il messaggio di separazione è pressoché immediato, come immediata è la risposta da parte delle stesse istituzioni (per gioco di sequenza, le forze dell’ordine), anacronistica, sterile.
L’ingresso delle donne alle carriere diplomatiche ha favorito l’apertura nei riguardi di quella ricettività mancante, tuttora non in grado di favorire la piena emersione del messaggio: in queste circostanze non vi è alcuna differenza, parliamo di esseri umani.
I casi di cronaca come conferma per questo profondo disequilibrio dovuto, da una parte a politiche di superficie, dall’altra a ordinamenti legislativi ancora in essere, purtroppo alimentati da quello stesso circolo vizioso in direzione di un obiettivo univoco, antagonistico (il continuo ed estenuante gioco del “guardare fuori” come giustificazione alla contrapposizione degli interessi – questi ultimi che superano il senso di Unità – la difficoltà alla convivenza fra Progetto di Vita del singolo e Bene-Progetto della collettività): come può convergere la differenza di vedute nel momento in cui c’è un “arrocco” sulla posizione professionale, personale – la presenza della Paura? Un addetto alla sicurezza può (potrebbe) avere scelta se far applicare quella legge che ha ricevuto in formazione fin dall’inizio perché avrebbe da rimettere, come tutti, la propria posizione (talora la reputazione, altra declinazione consequenziale al mancato riconoscimento – a cosa serve la reputazione in una società fiduciosa, dove tutti abbiamo la possibilità d’espressione e guardiamo verso la stessa direzione pur esercitando diverse professioni?), la possibilità di avanzamento. Senza la collaborazione di tutti, il risultato sarà disatteso.
Dalla mancanza di Fiducia nasce il fraintendimento, la lontananza, la separazione: il vero ordine è, in realtà, equilibrio interiore. Quale aiuto possono dare gli operatori della sicurezza anche in presenza di una vera e propria collaborazione con altre professioni più indicate in mancanza di questo riconoscimento? Si tratta di un interconnessione: il gioco dello specchio, inizi tu o inizio io?
Il meccanismo di difesa, inevitabilmente sempre lo stesso, ha sempre condotto il più debole alla paura (intimidazione) ed il più forte al ripiego nella paura, talora nella recidiva (presenza del meccanismo di potere – trovare il male fuori per distogliere l’attenzione dal proprio disagio, le parti scisse in profondità), in ottemperanza al sistema giuridico (riforme non avvenute), mezzi lontani dal princìpio di Umanità: un cerchio nel quale incomprensione e mancata comunicazione (comunicazione inefficace) si inseguono concludendo negli stessi risultati. E’ quindi un circolo dal quale non è possibile uscire se non “spezzando” la catena che tiene ancorata la consapevolezza alla costruttività di tale meccanismo: la messa in discussione gioca un ruolo fondamentale per la sua durata, così disfunzionale all’uomo moderno, al nuovo essere umano che non ha bisogno di maschere, ne ha bisogno dell’accettazione da parte dell’Altro.
Il meccanismo della paura non nasce dall’intimidazione, ma da questa trae la forza per il suo mantenimento in vita.
La ricerca di pienezza può venire soltanto dal riconoscimento e dal rinnovamento di quelle passate idee di sofferenza, trattenute, inascoltate, mediante un Ascolto che va oltre il semplice dialogo verbale: per questo, abbiamo bisogno di persone che sappiano guardare oltre, incontrare l’altro ad un livello più profondo, per mezzo della Fiducia.
Daniele Fronteddu