L’attuale sistema socio-culturale (le istituzioni come riflesso di questa realtà – codipendenza delle realtà) che tende alla ricezione-conformazione, alla presunta manifestazione della felicità mediante percezioni filtrate, falsate anche per mezzo degli stessi strumenti atti al conseguimento (una felicità vissuta in questo modo designa una personalità non in grado di cogliere la bellezza della vita, lo splendore del presente – talora proviamo rabbia, arrivando al risentimento, all’accoglimento di questa possibilità – la rabbia come conferma al profondo disagio in relazione all’accettazione di se stessi). Un ordine vissuto secondo questi parametri si rivela fittizio, illusorio (la recidiva del disagio, l’impossibilità nel trovare un valido punto di riferimento sul quale fare affidamento), tendente alla bassezza, scadente nella pochezza di propositi. Un ordine che non va in direzione della vera felicità ma della privazione, accontentamento“in mancanza” (di appagamento per se stessi – la concezione errata, condizionata del meccanismo giurisprudenziale, la ricerca dell’ordine, dell’equilibrio sociale mancante di un vero baricentro, insostanziale alla base che impedisce il raggiungimento della nostra ed altrui Felicità). Nel momento in cui autosabotiamo noi stessi, inconsapevolmente immaginando di “fare del bene al prossimo“, ascrivendo alla parte concettuale-prospettica, istituzionale (esterno) la forza di pervenire alle risposte sulle nostre mancanze, concludiamo nella defraudazione delle nostre reali capacità, possibilità.
Tale compito dovrebbe essere rappresentativo dello Stato, dell’istituzione (modello di riferimento): fungere da modelli d’esempio per la popolazione, alternativa alla repressione derivante dalla mancanza di conoscenza, promozione all’apertura, trasmissione del senso della vita, i princìpi universali regolatori dell’esistenza. Cadere nella pretesa dell’ordine spinti dal senso di giustizia (la personale concezione di ordine che poggia sul meccanismo di paura), dalla stessa concezione (gli operatori della sicurezza, giudiziari impossibilitati al riconoscimento, all’attuazione) in mancanza della trasmissione alternativa: “Pretendiamo” il rispetto di una concezione priva di qualsiasi fondamento – desideriamo dall’altro qualcosa che non riusciamo a dare a noi stessi, il benessere. In questo senso, arriviamo al pregiudizio, al giudizio (concezione errata dell’ordine, la scarsità di strumenti all’attuazione di politiche mirate, della Giustizia – soprattutto, mancanza di riconoscimento del senso della vita, centro nevralgico di ogni discussione, ragionamento – la conseguente negazione di se stessi in favore della causa, l’inevitabile pretesa che termina tanto per se stessi, quanto per l’altro, nell’ancoraggio alla paura).
La letteratura, l’esperienza, la storia soprattutto contemporanea insegnano il profondo automatismo del “gioco dello specchio“. L’unico modo per lasciare andare l’insieme di costrizioni, restrizioni (pressione di un sistema convenzionale fondato sulla distanza con l’altro, la tendenza alla prevaricazione, all’egocentrismo – la realizzazione ottenuta per mezzo dell’arrivismo – non considerazione dell’importanza dei princìpi universali, velati dalla vecchia concezione) basate sul meccanismo dell’intimidazione (impossibilità a questo riconoscimento che conclude nella repressione, nel concetto insostanziale di ordine), consiste nel prendere coscienza di questa mancanza, le ragioni all’impossibilità d’espressione (il punto in comune per tutti rappresentato dal rispetto delle convenzioni funzionale alla comprensione della regolamentazione mancante dell’aspetto più profondo, quello umano, mediante il quale riusciamo a vedere nell’altro il prolungamento di noi stessi – l’assenza di coraggio, il ripiegamento su se stessi, nella paura, la mancanza di Fiducia nelle proprie potenzialità, il riconoscimento della verità al nostro essere nel mondo, non permette la riscoperta dell’Altro ne il perseguimento dello scopo in assenza di codipendenza – Quale significato ha la dipendenza nel processo evolutivo del singolo? Perché necessito della dipendenza per ottenere l’approvazione dell’altro, raggiungere lo scopo? La risposta è contenuta nel bisogno di accettazione, appartenenza – in questo senso potremmo parlare di interdipendenza, quale unione delle forze al raggiungimento del risultato, prioritario tanto quanto la nostra partecipazione), avere il coraggio guardarla in faccia e mettere, al primo posto, la propria Felicità, il proprio benessere (centratura nel cuore, equilibrio ragione-sentimento, comprensione dell’importanza dell’essere se stessi fino in fondo) tale da far crollare l’aspettativa dell’altro, i condizionamenti che hanno originato il senso di paura e la relazione di dipendenza (disfunzionale tanto alla massima realizzazione personale, dei propri obiettivi – il fine del singolo Progetto s’interseca con il collettivo), la necessità alla segretezza emozionale. Comprendiamo non essere colpa di nessuno nel momento in cui realizziamo l’inevitabile passaggio generazionale dei condizionamenti, la repressione delle emozioni come parte di un sistema di controllo finalizzato alla dissimulazione delle singole paure teso ad un riconoscimento prettamente esteriore sempre meno incentivante per il singolo (le paure possono essere affrontate soltanto mediante la coscienza, il coraggio), all’osservanza di una concezione di ordine-sicurezza lontana dalla libertà d’espressione, dal benessere (generatrice dei disagi vissuti, in parte dal mancato riconoscimento-accettazione di se stessi in relazione all’altro, in parte da una difficoltosa-mancata comunicazione fra parti).
Abbiamo bisogno di guardare alla nostra parte più profonda per comprendere cosa è venuto, cosa sta venendo adesso a mancare, quali sono le origini delle problematiche che viviamo nel collettivo (l’altro come riflesso, espressione, manifestazione del nostro disagio interiore). Hai mai fatto caso alle persone che richiamano, anche soltanto per poco, la tua attenzione, nella loro espressività, nei loro comportamenti, nella loro presenza? Osserva il Tuo pensiero, la Tua reazione in merito chiedendoti: Cosa mi da fastidio di questa persona? Perché mi da fastidio quel che pensa, che dice, il suo comportamento? Comprendere quanto arreca disagio rappresenta il primo passo verso la presa di coscienza delle nostre paure, la possibilità al superamento delle stesse.
La dipendenza come conseguenza del disagio: sull’aspettativa dell’altro che ritengo importante ai fini della mia presunta realizzazione (incompleta) mi sentirò in dovere (perché non cosciente dei nodi irrisolti – non conosco abbastanza me stesso, non ho lavorato su me stesso, nessuno, al di fuori di me, è stato capace di riconoscermi – questo lavoro spetta a me) di rispondere con la negazione – allora non riuscirò ad esprimere me stesso perché non ho mai avuto la possibilità, l’occasione di rivelare, manifestare la mia essenza (le parole, le azioni del bambino non tenute in considerazione nell’infanzia si ripropongono in età adulta). Come potrò esprimere completamente me stesso se l’Altro (il modello figurativo che sto prendendo come esempio di vita, il mio riferimento) non avrà riconosciuto se stesso?Un altra conferma al Gioco dello Specchio: Chi inizia?
Dipendenza in senso lato: potrebbe trattarsi anche di attaccamento al concetto di Rispetto (Giustizia, come posso essere guardato, riconosciuto dall’Altro? – la Legge come espediente per la ricerca d’attenzione dell’Altro: l’avvocato, il magistrato, il giudice – per esteso, la rappresentanza giudiziaria, l’addetto alla sicurezza), altro tema molto importante sul quale dibattiamo in continuazione al fine di comprendere quale sia la motivazione che spinge l’Altro a commettere “reato“, comprendere in che modo distanziare l’Altro (del quale abbiamo bisogno per evolvere, raggiungere il nostro obiettivo) per impedirgli di arrecarci danno. Come sempre atto alla dissimulazione di una paura atavica, quasi ancestrale, quella della perdita di Libertà (la stessa come declinazione al mancato riconoscimento di se stessi). Si tratta di una concezione che affonda nell’errata percezione della realtà stessa: come possiamo migliorare noi stessi in relazione ai passati condizionamenti continuando a guardare all’esterno? La risposta è, come sempre, al nostro interno – noi, cocreatori della realtà circostante – l’Altro come specchio della domanda e della risposta (noi), le istituzioni, il sistema-specchio che desideriamo cambiare rappresenta, contemporaneamente (in presenza del meccanismo di paura), un irrinunciabile consuetudine che tendiamo ad alimentare, perpetuare (un po’ quel che facciamo davanti ad un problema, cerchiamo di negare fino al punto in cui realizziamo essere logorante, impossibile da fronteggiare – la decisione di voltare pagina come atto di Coraggio).
L’adattamento non è attaccamento: Può essere funzionale per un verso, ma per l’altro: se è vero che mediante l’adattamento sviluppiamo maggiore resistenza agli ambienti, alle circostanze (stress), con l’attaccamento (dipendenza) tendiamo a giustificare il meccanismo di paure, tutti i timori nei confronti del mondo, delle situazioni, delle persone. La Legge come specchio della società, dell’uomo: ogni mutamento interiore dell’uomo si riflette nelle riforme, e viceversa. In questo senso, possiamo comprendere la profonda inefficacia, alla luce di una società in perenne mutamento, di tanti provvedimenti, decreti (ancora non riformati) adottati nel passato (e ancora in essere), soprattutto sotto il profilo della legge morale naturale – l’importanza che tendiamo ad attribuire alla Legge senza aver compreso la sostanzialità del princìpio giusnaturalista che contempla la libertà umana a fronte del vincolo legislativo.
In questo senso potremmo chiederci: avanti all’utilizzo smodato della mente, del raziocinio, riteniamo più importante il “sentimento” o il “ragionamento“? (Cosa ritengo veramente importante ai fini del raggiungimento della mia Felicità? Come posso trovare l’equilibrio interiore in mezzo a tanta confusione? – l’eterno ruotare attorno al baricentro senza riuscire a riconoscerlo).
Frattanto che cercavamo la verità al di fuori, l’apparenza (l’aspettativa dell’Altro) desideravamo trovare quest’equilibrio interiore (esteriore), il cambiamento all’esterno – la profonda insoddisfazione derivante dal riconoscimento mai avvenuto (o avvenuto soltanto in parte), non garantisce la completezza, la nostra integrità.
Una conferma, secondaria ma pur sempre molto importante, può arrivare dall’organizzazione “gerarchica“, l’impostazione della stessa Forza Armata. E’ comprensibile che l’addetto alla sicurezza tenderà alla subordinazione in presenza della paura: si tratta di due distinte condizioni, nella prima il soggetto che dovrebbe rendere il massimo delle prestazioni a completa disposizione del superiore mediante repressione, dedizione sacrificata quasi incondizionata alla causa (si tratta di dedizione alla causa o alla rappresentanza del superiore? Il princìpio universale di condivisione, prerogativa della forza armata non può contemplare, in questi termini, il concetto di obbedienza, necessariamente da ridefinire, sostituire): il sacrificio non corrisponde al perseguimento dell’ideale, della causa, quanto ad uno svilimento di se stessi in relazione alla causa, la dedizione alla stessa che passa per l’impossibilità al riconoscimento – come può la rappresentanza non in grado di garantire la piena espressione, prima ancora il riconoscimento dell’essenza (che non passa esclusivamente dall’analisi motivazionale, attitudinale, psicofisica) della persona, immaginare una nuova concezione di essere umano improntata al soddisfacimento dei bisogni della collettività? (il singolo specchio della collettività e viceversa), nella seconda il soggetto impegnato al processo collaborativo-cooperazionistico di gruppo, insieme al superiore, riconosce se stesso in relazione alla causa ed impiega utilmente, consapevolmente, il proprio tempo, le proprie energie per il fine collettivo (umanitario). Il cambio di posizione-prospettiva è dato dal riconoscimento di ambedue le parti che s’incontrano per la realizzazione del progetto in comune su fondamenta completamente nuove.
Entrare in Tribunale, ricorrere all’aiuto dell’avvocato, terminare l’estenuante processo di contenzioso (cit. l’abuso della Legge) risponde sempre, esclusivamente, all’esigenza di sicurezza che poggia su fondamenta sempre meno solide (come possiamo mirare al superamento delle paure ricorrendo all’aiuto dell’altro? – nel momento in cui prendiamo coscienza della logicità consequenziale del meccanismo di paura non guardiamo più come ad un punto di riferimento, necessario appoggio in assenza del quale ci sentiremmo perduti, quanto ad un estensione delle nostre possibilità, un opportunità all’arricchimento – non vi è alcun bisogno di contemplare il termine Comando). Tale necessità si accompagna sempre alla “paura di rischiare“, la “paura di perdere” qualcosa che sentiamo appartenerci: le più note forme di attaccamento che, in mancanza di riconoscimento, determinano la consueta dipendenza emotiva – dipendenza da lavoro (stacanovismo), dal partner (spesso alla concezione d’Amore vissuto nel disagio – i rapporti di coppia vissuti all’insegna della drammaticità, della confusione), dall’amico del quale pensiamo non poter fare a meno, soprattutto nei momenti di difficoltà, da una persona trapassata, da sostanze. Dipendenza dalla stessa Legge: proviamo ad immaginare un domani mancante di un modello legislativo capace di tutelare i nostri interessi, cosa faremmo? Come vivremmo questa profonda assenza in mancanza di strumenti che riescano a tutelare i nostri possedimenti, i nostri attaccamenti? Vien da se che il problema, riscontrabile su più fronti, non sia tanto la riforma istituzionale, politica (fattore esterno) quanto il riconoscimento, l’ammissione di quel che non riusciamo a dare, per primi, a noi stessi (fattore interno).
L’attaccamento ad un ideale che rappresenta quanto abbiamo sempre desiderato come distrazione per il nostro Riconoscimento: quanto più intense sono state le emozioni in relazione all’oggetto del desiderio, tanto più faremo fatica ad allontanarcene.
La vera sfida è rappresentata dal superamento delle nostre stesse paure in relazione a quanto riteniamo importante per la nostra vita (il lavoro, le amicizie, l’amore). La capacità di adattamento non presuppone la realizzazione (cit. Forze Armate), la resistenza non è sinonimo di forza, e questa stessa non è funzionale al raggiungimento dello scopo se mancante di un vero e profondo Riconoscimento del Singolo (lavoro su se stessi – scardinamento del meccanismo di paura – presa di coscienza dell’importanza dei princìpi universali anche, e soprattutto, in relazione allo sviluppo della collettività).
Daniele Fronteddu