Nel momento in cui prendiamo coscienza della profonda paura che blocca la parola e l’azione, prendiamo coscienza di quel meccanismo ricorrente che non permette la riscoperta della Felicità: siamo protagonisti e co-protagonisti, allo stesso tempo volutamente antagonisti, della creazione di una vita vissuta totalmente sotto tutti gli aspetti. Nel momento in cui realizziamo questa verità che nessuna delle persone attorno, forse nemmeno le più indicate (dall’altro), sono riuscite a portare alla luce al fine di valorizzarne la radice, comprendiamo l’importanza del lavorare su noi stessi, su quelle antiche paure che bloccano la nostra espressione, la creatività: un lavoro che ci spetta personalmente che non possiamo demandare. Immaginare e sentire dentro la paura esistere, nel momento stesso in cui guardiamo a quei confini apparentemente invalicabili (condizionamenti) che, invece di proteggere, tutelare, valorizzare la nostra verità, hanno fatto in modo si riducesse al lumicino, hanno ridotto anche il desiderio di “andare oltre” i nostri occhi (che abbiamo immaginato essere quelli dell’altro), ad iniziare dalle nostre singole potenzialità e, ancora prima, dalla manifestazione della nostra verità, al di la delle convenzioni comuni che hanno teso, senza nemmeno accorgersene, alla negazione, contribuendo al rinforzo del blocco e gettando il nostro animo in una spirale senza fine. Insieme sulla stessa barca, verso la stessa direzione: il desiderio di riconoscimento insoddisfatto, accompagnato alla ricerca spasmodica della tutela degli stessi interessi, hanno finito per tendere all’estremizzazione tensiva che avrebbe trovato nella giurisdizione possibilità lenitiva, rassicurante, al fine di mantenere in vita la paura dell’altro (che, a tempo stesso, avrebbe desiderato la riappacificazione anche in se, e per se stesso). A questo ha contributo un vecchio retaggio socio-culturale da parte degli stessi specialisti, addetti all’accoglimento dell’altrui sofferenza, l’asimmetria mente-cuore che ha prodotto numerosi e devastanti risultati. Ma quest’evidenza, in mancanza di una vera e propria apertura alle nuove possibilità, fatica ad essere accettata. Quest’asimmetria è data, ancora, dal mantenimento di quello status quo che vede noi e l’altro in completa separazione, il disconoscimento dovuto alla mancanza di quel profondo Ascolto di Se Stessi che rende vano ogni tentativo di approccio verso l’altro che non abbia origine nello stretto utilizzo della mente, nel ricorso alle sole e disfunzionali meccaniche logico-razionali.
Lasciar andare il meccanismo di paura può funzionare soltanto nel momento in cui prendiamo coscienza che quel coraggio, spesso ottenuto per emulazione, è nostro. Il senso del “limite” (che si estrinseca nel diniego al raggiungimento della piena manifestazione del se), ha suggerito al cuore l’impossibilità d’espressione, confinando ad un piccolo spazio anche la possibilità di un vero dialogo con l’altro che non fosse soltanto incontro fra menti, ma un guardarsi senza più veli accessori: un incontro fra cuori non improntato all’aiuto basato sulla paura dell’altro. Abbiamo teso alla classificazione di “giusto o sbagliato” a fronte di un sistema socio-culturale che poggiava su una morale condivisa, tendente al conservatorismo, sacrificando i nostri pensieri, nostre sensazioni, spesso in relazione a quel che l’altro riteneva, per cultura o posizione sociale, più opportuno al fine della nostra stabilità (mantenimento del meccanismo di paura), tendendo al senso di appartenenza che avrebbe comportato tanto la nostra quanto altrui sicurezza, la stessa che immaginavamo come un rifugio dal quale avremmo potuto guardare il mondo, viverlo secondo una prospettiva sempre meno rischiosa, serena, priva di troppi ostacoli: di fatto la vita ha messo di fronte altri ostacoli alla nostra felicità. Il primo siamo stati noi con le nostre convinzioni, i nostri pensieri di paura che, seppur giustificati, avevamo la possibilità di cambiare. Abbiamo così proiettato sull’altro, in un eterno gioco di specchi, l’impossibilità al cambiamento.
Una comunicazione mai avvenuta, di fatto, a partire dalle istituzioni che avrebbero dovuto garantire quella possibilità all’espressione propendendo verso un nuovo modo di pensare, concepire la vita, ad iniziare dall’ammissione di quell’assenza, così importante da considerare per il raggiungimento della vera libertà: infondo, nemmeno loro avrebbero potuto, essendo parte attiva e passiva di questo infinito loop di incomunicabilità, interiore ed esteriore.
Nessuno è mai riuscito in quest’impresa dal momento che è stato preferito distanziare, nettamente, il sentimento dalla ragione, l’essenza dal raziocinio, con la conseguenza di una discrepanza che è andata radicandosi nel tempo: tutti gli atteggiamenti protratti a lungo, insegna la psicologia, tendono al rinforzo, al consolidamento.
Saper comunicare non è semplice quando alla parola non si accompagna l’Ascolto. Imparare ad Ascoltare lasciando da parte, per un attimo, la paura prendendo in considerazione l’unica possibilità esistente chiamata “ricezione“, a scanso di tutte le pseudo sicurezze che andiamo inseguendo e che rendono apparentemente la nostra vita degna d’esser vissuta, avendo dato un senso al nostro vivere (in relazione all’esistere dell’altro): l’altro, di quel che consideriamo diverso ed inafferrabile, del quale ancora tendiamo a non fidarci (di conseguenza, ogni possibilità di partecipazione attiva è pressoché impossibile), talora suscitando in noi un senso di ironia, palese manifestazione di quell’imbarazzo, quel disagio che sentiamo pervaderci dentro all’approssimarsi di quel vuoto pneumatico che scardina ogni nostra certezza, l’incertezza di quel che non conosciamo o che conosciamo ma che rifiutiamo di affrontare: è un modo questo per progredire, lasciando indietro le presunte sicurezze infruttuose all’ingresso sul nuovo sentiero.
Capita spesso, quasi pensando di non avere scelta, di ritrovarsi a vivere in funzione dell’altro, spesso afflitto da disagi che non conosciamo nemmeno, permettendogli, in questo modo, di asservire la nostra volontà, il nostro desiderio, alla sua sofferenza, alla possibilità di fare il buono e cattivo tempo, privandoci della spontaneità e dell’opportunità di renderlo partecipe, ricordandogli dell’estrema importanza del presente: ma non dovevamo aiutarlo a migliorarsi? Non risolvere i nostri disagi proietta l’altro, dal quale dipende molto della nostra felicità (e viceversa), in una dimensione di sofferenza, oltre che noi stessi in un mondo di benessere, illusorio ed artefatto. Un lavoro come opportunità per noi stessi, a tempo stesso per l’altro. La rabbia, il risentimento, le paure, trasmissibili insieme al giudizio, come una spada rivolta verso entrambi: Tu e l’Altro.
La cecità dell’altro potrebbe diventare tua, nel momento in cui permetti silenziosamente, meccanicamente a te stesso, la condivisione e la reiterazione di quel vecchio automatismo, disfunzionale allo sviluppo di entrambi, che dovrebbe liberare prima te poi lui (paradossalmente è quello che desidereresti), avendo tu stesso la scelta come e quando iniziare a migliorare te stesso (la tua vita): e sono queste le impossibilità nelle quali versano anche tutti gli operatori addetti alla “giustizia“, alla “sicurezza“, all’ordine di un sistema che, per la stragrande maggioranza, non ha ancora avuto la possibilità di riconoscere quest’importante parte del discorso, fondamentale alla comprensione del concetto di Umanità, dimenticato.
Nell’attenzione impiegata verso il proprio lavoro, protesi verso quell’ordine, quella sicurezza ideali, impossibilitati anche nel vedere il contrario, questi stessi hanno privato, senza nemmeno accorgersene, se stessi e l’altro di quest’importante possibilità che rappresenta quanto di più reale possa esistere sulla Terra: la concezione del vecchio, considerata così normale, tanto da loro quanto da noi, che desideriamo vivere in un mondo assente dalla violenza ma che ancora fa uso della violenza per raggiungere la pace (paradosso), in un periodo storico in cui, invece, il desiderio d’equilibrio fra mente-cuore continua più insistentemente a farsi sentire. Anche in questo senso la comunicazione continua a scadere nel banale, al momento in cui sembra di puntare il dito contro qualcuno, lo stesso si trova nella condizione di doversi giustificare e lo fa con l’unico strumento a disposizione atto a tutelare i “propri” interessi, la propria incolumità fisica e psicologica: questo stesso meccanismo cade nell’istante in cui realizziamo questa profonda mancanza, divenuta cliché nella nostra quotidianità, caratterizzata sempre più dalla presenza del “conflitto fra parti” come unica possibilità alla crescita ed esclusione-elusione della paura. Questo meccanismo che profonda in tutti noi senza alcuna distinzione, richiede tutta la nostra attenzione in quanto alla base del nostro ed altrui sviluppo: alla base della creazione di una società diversa da ieri, non più basata sul pregiudizio e sul giudizio come naturale processo al quale andiamo incontro sotto convenzioni sociali che tendono alla risoluzione pacifica mediante l’utilizzo di procedure e strumenti lontani dal concetto di Umanità, paradossalmente a quanto desiderato.
Guardare all’apparenza per rifiuto al riconoscimento di quella verità che, infondo, sappiamo essere per tutti la stessa, non contribuisce al ritrovamento di quell’equilibrio, e l’estenuante attaccamento alla forma (associazione), alla parola (spesso cercando il modo per giustificare la nostra posizione per vantare quella sicurezza che vorremmo vedere al di fuori), come unica possibilità di ricezione dell’altro in relazione a quanto sentiamo interiormente, conclude sempre allo stesso modo. Tendiamo ad interpretare questa verità tendendo alla determinatezza delle opinioni, all’arroccamento sul concetto di opinabilità spesso per non Ascoltare attaccandoci, ancora di più, al fardello illusorio del possedimento che potremmo lasciare andare, in qualsiasi momento, risolvendo nell’osservazione e nell’accettazione della mancanza di questo equilibrio. Questo non rappresenterebbe la deriva dei nostri ragionamenti, la completa messa in discussione della nostra posizione, ma un arricchimento alle nostre vedute, l’apertura alla Vita nella sua più intima essenza.
La mancanza di una vera e propria comunicazione, esente da questo meccanismo, superficiale, logorante, basata sul disequilibrio mente-cuore, sullo scambio emotivo-empatico (possibile attraverso il riconoscimento e l’accettazione della propria essenza), tende a spingere verso l’interno il desiderio alla Vita per la stessa paura di sempre. Il disagio dell’altro sarà vissuto interiormente, inconsciamente, come qualcosa che “mi appartiene”, al punto da prendere in considerazione come unica possibilità quella di doverlo assecondare, assecondandone il punto di vista e l’impossibilità di questo riconoscimento. La tendenza è quella del “lasciarsi andare“, come una barca che, in mezzo al mare, senza meta, viene sospinta in tutte le direzioni. Possiamo chiederci e chiedere all’altro: sei cosciente del motivo per il quale stai vivendo, prescindendo dal semplice lavorare, dal ricoprire una determinata posizione sociale? Come pensi di vivere senza quelli che pensi essere punti fermi alla tua espressione, alla manifestazione del tuo potenziale? Se tutto questo d’improvviso mancasse, quale sarebbe la luce in grado di tenere accesi i tuoi sogni, la tua creatività? Qual’è per te il senso della vita?
Dovremmo alzarci la mattina e sorridere al nuovo giorno che inizia, sempre sotto ottimi auspici. La Vita e l’essere in Vita che va celebrato, fin dal primo istante, senza mai cadere nella trappola illusoria del Qui ed Ora vissuto illusoriamente guardando al passato. Forti delle nostre esperienze potremmo guardare all’adesso come fosse la prima volta, il primo ingresso alla vita, guardando all’altro come riflesso di quelle parti scisse che riteniamo ancora far parte del nostre essere più profondo, trattenute dalla libertà. Sono forse impedimenti alla nostra Felicità i programmi che affollano la nostra mente per tutta la giornata impedendo alla farfalla che siamo di spiccare il volo? Cosa impedisce alla nostra essenza, massima espressione della vita, di manifestare la propria libertà? Quale potere esterno è in grado di direzionare le nostre scelte? Rispondendo a queste domande ci renderemmo conto, per davvero, di quanto i pensieri possano assorbire gran parte della nostra quotidianità e di quel tempo che invece potremmo dedicare alla ri-scoperta di noi stessi e dell’altro. Scoprire d’essere vivi, in questo momento, ed immaginare, prendere coscienza possa non essere più così un istante dopo e non poter più godere di quest’opportunità, caricherebbe il nostro cuore di un desiderio mai visto prima: ritornare a vivere senza sprecare nemmeno un attimo. Ci renderemmo conto di quanta poca importanza ha parlare male, inveire contro il prossimo, considerarlo come un estraneo e la fiducia come una chimera così lontana dalle nostre possibilità. Quanto posso cambiare del mondo che mi circonda? Cosa posso fare quest’oggi per cambiare il mondo attorno a me?
Scoprirò d’avere avuto e avere, in questo momento, infinite possibilità di modificare il corso degli eventi influenzando non soltanto la mia, ma anche e soprattutto la vita di altre persone che, silenziosamente, come faremmo esattamente noi, non aspettano altro che un nostro cenno per poter migliorare, aprirsi all’altro, sorridere. Il vero Senso della Vita è il Sorriso, massima espressione dell’essenza di ognuno, in assenza di condizionamenti, non soltanto immaginare di realizzare la propria persona in virtù dell’apparire sociale, sempre più secondario ai veri valori che si avvicinano, momento per momento, soprattutto in questi ultimi tempi, ai princìpi universali più alti d’Amore, Prosperità e Condivisione. Il sorriso per il prossimo che potrebbe essere il mio vicino di casa, l’amico, il collega, il capoufficio che, nonostante tutto, in passato non ha mai saputo trattarmi come desideravo, sentivo di meritare: la forza del sorriso che dispiega le ali, come un gabbiano, verso l’infinito.
Una verità che inizia nel cuore verso gli occhi dell’altro, fino ad arrivare alla sua essenza.
Infondo, siamo fatti della stessa sostanza.
Daniele Fronteddu