La liberazione dalle paure non passa per l’emancipazione degli studi, per mezzo della carriera, della realizzazione sociale-professionale, quanto dal profondo senso di realizzazione in seguito alla pienezza di senso, il riempimento del vuoto. Questo annulla ogni differenza di vedute, ogni comparazione ed ogni presunta disparità, vissuta direttamente o indirettamente, tra l’alto e il basso – il ricco e il povero. E’ possibile anche mediante il componimento di opera d’arte: per mezzo dell’emisfero destro, così svalorizzato in favore del sinistro, ritenuto fin troppo connaturale al perseguimento dell’equilibrio nei diversi contesti socio-culturali che vedono prevalere il raziocinio all’emozione (asimmetria mente-cuore, ragione-sentimento). In presenza di un vero e proprio equilibrio fra parti, invece, sarebbe prevedibile raggiungere quella tanto osannata affermazione personale (collettiva) che non poggia su basi prettamente materialistiche (la società come riflessione, non più meramente materiale, della profonda soddisfazione del singolo sotto l’aspetto materiale, psicologico, spirituale). L’emozione, forza propulsiva per ogni essere umano, argomento sul quale molti studiosi hanno investito il loro tempo, rappresenta il mezzo più indicato al raggiungimento del benessere personale, alla stregua della “possessione” di un ingente somma di denaro, la scalata al vertice per un dipendente aziendale, l’Ascolto per un orfano che non ha mai avuto la possibilità di conoscere la madre ed ha subito, a diverse intensità, la negligenza del mondo. Queste persone hanno in comune una mancanza che nasce dall’assenza di qualcuno, di qualcosa: nel momento in cui osserviamo questa mancanza comprendiamo anche la mancanza di connessione con la nostra parte più profonda (la Vita) in grado di muovere ogni scelta verso la massima aspirazione, la realizzazione (tensione costruttiva dell’emozione).
Comprendiamo quanto sia importante la ri-scoperta della naturalezza della vita al fine del perseguimento dei nostri obiettivi personali. Quando è stata la prima volta che hai avvertito un senso di freddezza, mancanza dentro te? Cosa ha significato per te quel momento, come l’hai superato? Chi o cosa avresti desiderato attorno per poterlo superare? Il sistema Giustizia, concepito per dare una regolamentazione (prima ancora della tutela), ha camminato parallelamente alla concezione di contenzioso sull’esistenza di una realtà prevaricatrice, separativa, tra un essere umano e l’altro: abbiamo finito per attribuire all’arma del contenzioso la possibilità (come giustificazione) per la vittoria di una battaglia che, come tutti sappiamo, non avrebbe avuto ne vincitori ne vinti, eccetto che l’illusoria soddisfazione del momento, triste conseguenza della separazione con l’altro, dalle sue paure (le nostre) e ad un livello più profondo (il problema irrisolto alla base) – i desideri centrati sull’ego, “volutamente allontanati” da quelli dell’altro al fine di permetterci il proseguimento del nostro percorso, il desiderio dell’ego, la maestria della parte più razionale, hanno concluso sempre nel disequilibrio emozione-raziocinio. Questo disequilibrio permette uno sviluppo spropositato dell’uno sull’altro, tutti i fraintendimenti, l’inversione, talora la confusione, tra concetto di interiorità ed esteriorità, quella labile connessione (scambio illusorio, funzionale soltanto al perseguimento di obiettivi più personali, mai collettivi) tra soddisfazione e attaccamento. L’incontro con l’altro potrebbe, in questo senso, dare l’opportunità di un progresso mediante il riconoscimento di queste stesse paure che tendenzialmente cerchiamo, in ogni modo, di arginare (cit. sistema giudiziario).
Se dovessimo chiedere ad una persona appena uscita vittoriosa da un processo, a cosa sia riconducibile, sul momento, la sua soddisfazione, probabilmente risponderà che la stessa ha dipeso molto dall’esito del processo, dal rapporto qualità-prezzo, l’equa ripartizione delle “responsabilità” che, magari, l’hanno vista coinvolta per settimane, se non mesi (i sacrifici, in termini materiali, hanno comportato la sua Felicità – un meccanismo che ha sempre funzionato, probabilmente continuerà ad utilizzarlo perché efficace): ha avuto quel che desiderava, sapeva meritare (il giusto riconoscimento dei suoi bisogni, l’ascolto da parte dell’avvocato, le parole rassicuranti del giudice, la sensazione di sicurezza derivante dal sentirsi tutelata, nel momento in cui tutte le parti sembrano, ai suoi occhi, essere uscite vittoriose – infondo, sa bene di conoscere l’essenza del problema). Il legislatore potrebbe anche avere come onere la possibilità per questo riconoscimento che però non avrebbe alcuna ragione di iniziare nelle aule di Tribunale, negli studi legali: è un lavoro che spetta al singolo, ad ognuno di noi. Come pensare che l’altro possa soddisfare in toto i nostri bisogni: un escamotage al superamento delle nostre stesse paure.
La Giustizia quale architettura tesa all’avvicinamento, prima ancora che all’applicazione delle norme, delle istanze che poggiano sull’onestà, la non lesività del prossimo: ma lesivo da “azione lesiva” verso le paure del prossimo? Infondo, stiamo parlando delle nostre stesse paure – In che modo qualcuno o qualcosa potrebbe avere motivo di nuocere al prossimo? Da cosa origina il sottile meccanismo teso a danneggiare il prossimo? Per quale motivo dovremmo fare del male al prossimo? Da qui in poi tutto il meccanismo giudiziario teso all’attacco e alla difensiva, dalle sentenze di condanna ed assoluzione: un contenzioso che, in assenza di una valida risposta, sembra non avere mai fine, come il sottile meccanismo della paura, in presenza di un’apparente mediazione non pienamente risolutrice. La giustizia quale meccanismo prettamente umano, terrestre, atto ad identificare i bisogni di ognuno e procedere all’accordo delle rispettive esigenze (non ha funzione risolutrice che, invece, viene demandata alle figure specialistiche). Tutte le figure che ruotano all’interno e all’esterno del sistema sono operatori che lavorano in direzione di questo riconoscimento che non può vantare la profondità e l’assolutezza, ma soltanto l’efficacia degli strumenti in itinere (in assenza dell’Ascolto). Ricordi chi o cosa ti ha portato a pensare potesse esistere un potere al di fuori di te in grado di riconoscere i tuoi più profondi bisogni? Come ti sentiresti se domani potessi avere tutto quello che desideri, vederti soddisfatto, senza più considerare un sistema giudiziario che possa tutelare i tuoi interessi? Infondo, il vero problema consiste nell’aspetto, presuntamente considerato, dell’immaginare che qualcun altro possa avere tutte le risposte ai nostri malesseri, oltre che il potere di riconoscimento dei nostri bisogni come pure la capacità di soddisfarli – se, per un attimo, potessimo porre l’attenzione su quest’osservazione, scorgeremmo immediatamente il motivo alla base della nostra infelicità. Quanto rispetto delle differenze, delle formalità tra cittadini, avvocati, magistrati, giudici: come possiamo accordarci al raggiungimento del vero equilibrio se, nonostante tutto, tendiamo ancora a giocare sulla difensiva? Come possiamo raggiungere un profondo equilibrio tra noi e l’altro? Qual’è il trait d’union fra operatori giudiziari, della sicurezza, cittadini e il comune obiettivo alla mediazione, al riconoscimento? (al raggiungimento della contemplazione dei princìpi universali di pace, condivisione – libertà): l’attaccamento preclude ogni conversione strettamente ancorata della singolarità delle vedute – il riconoscimento dell’essenza dell’Amore prescinde da ogni altra forma esistente e da qualunque necessità all’attaccamento. Potremmo ritenerlo compito di un giudice, ma ascriveremmo ancora la soluzione al sistema giudiziario che, invece, non può fornire risposta alle domande esistenziali dell’uomo: la società civilizzata ha visto, nell’intento del progresso (più materiale), la perdita di contatto con la natura (interiore-esteriore) accompagnata al profondo disequilibrio della convivenza (riconoscimento di se stessi, dell’altro), al fine di quella separazione che oggi viviamo, sempre meno funzionale al riconoscimento di noi stessi (che deve avvenire in noi). Come potresti stare bene insieme all’altro se non stai bene con te stesso? Su cosa poggiano le sicurezze che garantiscono il tuo stare insieme all’altro? Se potessi vivere in assenza di queste chi saresti, come ti comporteresti, quale potrebbe essere il tuo vero obiettivo?
Sono domande difficili nel momento in cui realizziamo aver creato una personalità tendenzialmente dipendente dall’uniformità dei bisogni dell’altro (stando insieme all’altro abbiamo finito per scambiare il suo bisogno di sicurezza con il nostro), dalle sue paure che abbiamo introiettato. E’ eccezionale realizzare come questa moltitudine di vedute abbia, nell’apparente separazione, teso verso un unico obiettivo, ma sempre concludendo nell’infelicità, talora nella mediocrità di intenti. Come possiamo essere Felici se non comprendiamo l’importanza del guardare a noi stessi, al riconoscimento che nessuno può darci? Come valorizzare la nostra persona, i nostri desideri ed aiutare l’altro nel raggiungimento dei suoi? Guardare al nostro ed altrui benessere (dell’altro): desideriamo la “sicurezza” per noi stessi, i nostri bisogni, i nostri desideri, e in questo ancora giustifichiamo le nostre paure osservandole nell’altro, l’Altro dal quale cerchiamo la divisione per proseguire il nostro sentiero ma del quale, puntualmente, sentiamo aver bisogno nel momento di necessità (mancanza d’Amore).
Diversi sono i paradossi, come credere che qualcun’altro possa renderci felici (dare all’altro il potere di riconoscerci), che la nostra diversità possa precluderci il vivere nella società (la convinzione della separazione con l’altro con il quale tendiamo ad entrare in conflitto d’interesse – la continua ed estenuante “ricerca d’importanza”, di riconoscimento all’esterno), che il conformismo, quale sacrificio di se stessi, dei propri desideri, verso una “morale condivisa” tesa tanto alla salvaguardia, alla sicurezza, quanto scadente nella repressione delle esigenze del singolo, possa giustificare le nostre paure (e permetterci una vita “sganciata” dall’altro ritenuto una minaccia a quegli stessi interessi che andiamo proteggendo), l’eterno dilemma tra libertà e dipendenza (attaccamento alla paura). Pensare la risposta possa provenire sempre dall’esterno, concludere nella nostra disarmonia (con l’altro), guardare alla Vita come ad un insieme di “regole”, invece che ad un infinito presente da celebrare: rappresentano dei diversivi per continuare a guardare fuori.
Le parti, apparentemente scisse, sono connesse da un unico baricentro che, se riconosciuto riequilibra, immediatamente, ogni aspetto della nostra vita.
Abbiamo scambiato il bisogno di appartenenza con il bisogno di accettazione, il benessere della condivisione, accettazione di noi stessi in relazione all’altro: come avrebbe potuto l’altro accettarci nel momento in cui noi, per primi, non avremmo accettato noi stessi?
Nel caso qualcuno dovesse ledere i nostri interessi abbiamo adesso la tendenza a ricorrere al meccanismo giudiziario per tutelare i nostri bisogni (separandoci ancora di più dall’altro, proteggendoci dal tentativo di danneggiamento e, contemporaneamente, dall’opportunità che neghiamo a noi stessi): abbiamo un disperato bisogno di guardare più in profondità per comprendere quali sono le motivazioni che spingono l’altro (noi) alla tensione del conflitto, al conflitto delle parti (inizio della causa), osservando il meccanismo della risoluzione per arrivare a comprendere meglio l’origine e la causa stessa di quello che è diventato un problema: questo può accadere soltanto guardandoci onestamente dentro, in profondità, iniziando a farci delle domande su noi, quello che siamo, la nostra natura. Il tentativo di arginare tutte le nostre paure abbraccia il tentativo di congiunzione fra la parte spirituale e la parte materiale, mente e cuore, ma in assenza di un vero e proprio atto di coraggio non possiamo concludere.
Qual’è il tuo più grande desiderio?
Daniele Fronteddu