Nessuno ha mai chiesto il permesso o il consenso di chi in Sardegna vive, lavora, produce, ha i propri interessi e i propri affetti. Mai, né in passato, né oggi.
La Sardegna è stata trattata come una pedina di scambio, un mero oggetto storico, nel grande gioco delle relazioni di potere della geo-politica, senza alcun riguardo per la sua popolazione, la sua storia, la sua bellezza.
Le servitù militari in Sardegna servono a tenere in esercizio le forze armate italiane e dei paesi alleati (NATO in primis), e non solo. Ma soprattutto sono una condizione necessaria al giro di affari che l’industria degli armamenti muove da sempre.
Per altro le aree sarde adibite a sperimentazioni belliche sono affittate dal Ministero della Difesa italiano anche ad aziende private, non necessariamente legate all’apparato militare e non necessariamente italiane.
Un giro di soldi impressionante, che ha in Sardegna solo la sede operativa, ma per tutto il resto fa capo al Ministero e al Governo. Nell’isola arrivano, quando arrivano, le briciole, sotto forma di “compensazioni”, “indennizzi”, usati per lo più come strumento di persuasione e di controllo sociale.
Le popolazioni locali sono state persuase che le attività militari sono la loro unica possibile fonte di reddito in quello che altrimenti sarebbe un deserto.
Questo non è vero. Esistono le alternative. La nostra terra stessa ci offre mille opportunità diverse dalle esplosioni, dalle esercitazioni, dai test di materiali pericolosi, dalle polveri velenose e dalle conseguenze che esse hanno sulla natura e sulla salute umana.
I problemi ambientali e sanitari causati dalle attività militari in Sardegna sono emersi solo in parte e solo negli ultimi anni, grazie all’opera tenace di associazioni e comitati, spesso isolati e ignorati, e infine anche tramite le inchieste della magistratura.
Quel che sta emergendo basta a considerarlo un disastro di proporzioni storiche. Di cui in tanti hanno pagato e stanno pagando le conseguenze.
Ma sono reali e tangibili anche le conseguenze negative sul tessuto sociale locale, vincolato alla monocoltura della guerra. Un tessuto sociale reso fragile e precario, esposto a interessi e volontà su cui le comunità interessate non hanno alcun controllo.