“Nel 1944, quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita dall’orrore e dalla cattiveria. Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di Auschwitz”.
Lo ha detto Liliana Segre, nel libro “Cosa sono le pietre di inciampo?”, dedicato all’iniziativa di un artista tedesco, attuata in diversi paesi europei, consistente nell’incorporare, nel selciato stradale delle città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, dei blocchi in pietra con una lastra di ottone sulla quale sono incisi nomi, luoghi e dati dei deceduti.
Liliana Segre ha vissuto una storia. Come Samuele Finzi, il protagonista del libro “L’albero della memoria. La Shoah raccontata ai bambini” di Anna e Michele Sarfatti.
Samuele Finzi nel 1937 ha 6 anni. La famiglia Finzi, di origine ebrea, vive a Firenze. La mamma Gemma fa la maestra e il papà Vittorio il ferroviere. Hanno una casa, con un bel giardino e un grande olivo, nel quale Samuele e i suoi amici spesso si nascondono durante i loro giochi.
Samuele va in prima elementare, quando nelle scuole vengono istituite corsi di dottrina fascista e esercizi ginnici in divisa. I bambini dai 6 agli 8 anni sono riuniti nei figli della Lupa e a loro viene consegnato un fucile giocattolo. Più piccoli di voi vengono educati a fare la guerra.
Anche Liliana Segre ha scoperto l’atrocità delle leggi razziali perché è stata espulsa dalla scuola che frequentava all’età di 8 anni.
La storia di Liliana Segre.
Liliana Segre è una dei 25 dei totali 776 bambini sotto i 14 anni che sono sopravvissuti campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Orfana di madre a nemmeno un anno di vita, Liliana cresce in una famiglia laica. Nel 1943 con il padre prova a scappare in Svizzera.
In quell’occasione, la polizia di frontiera li mandano indietro e a Varese procedono al loro arresto. Liliana resta nel carcere milanese di San Vittore per 40 giorni e successivamente, insieme al padre, viene condotta ad Auschwitz.
Anche i suoi nonni paterni vengono deportati e giustiziati nello stesso anno in cui Liliana fa il suo ingresso nel campo di concentramento. Liliana non rivedrà più nemmeno suo padre.
Sul braccio le viene tatuato il suo numero di matricola “75190” ed è costretta ai lavori forzati presso un fabbrica che produce munizioni. Lavora per circa un anno per poi essere trasferita in Polonia a causa della chiusura del campo.
Trasferita infine nel campo di Malchow, situato a nord della Germania, Liliana viene liberata il 1° maggio del 1945, a causa dell’occupazione russa. Torna in Italia, a Milano, nel 1946.
Dopo un lungo silenzio, inizia a raccontare la storia della sua prigionia nei primi anni Novanta agli studenti di diverse età. Lei testimonia a tutti noi l’importanza di avere una memoria tutto l’anno.