Alle 12.30 per la prima volta in Svizzera viene chiusa definitivamente una centrale nucleare. L’impianto di Mühleberg, dopo 47 anni, cessa la sua attività. Circa il 4-5 per cento dell’elettricità svizzera arriva dalla centrale nucleare di Mühleberg. Con la sua chiusura, la produzione di elettricità nel canton Berna verrà dimezzata. Tutto ciò non avrà alcuna influenza nell’approvvigionamento elettrico. Nella sala comandi, esattamente alle 12.30, verranno premuti due pulsanti e la centrale nucleare si spegnerà. A quel punto la pressione nel reattore si ridurrà e la temperatura dell’acqua scenderà da 280 a meno di 100 gradi Celsius entro sette ore. La centrale nucleare dovrebbe cessare la sua attività il 22 dicembre. A partire dal 6 gennaio inizierà lo smantellamento. Il coperchio del serbatoio a pressione del reattore rimarrà chiuso per tre mesi tra gennaio e marzo. In questo lasso di tempo la radioattività diminuirà di mille volte. Tra marzo e giugno del 2020, la copertura in cemento, che protegge dalle radiazioni, sarà smantellata. Il coperchio del contenitore a pressione verrà aperto e a quel punto la fossa verrà riempita con acqua. Dopodichè verranno liberati gli elementi di combustibile, e saranno depositati in una piscina riempita con acqua. Lì, pian piano, si dissolveranno nell’arco di alcuni anni. Circa 6000 tonnellate di materiale radioattivo raggiungeranno l’impianto di stoccaggio temporaneo nazionale entro il 2024 e saranno preparati come rifiuti per un successivo stoccaggio in un deposito geologico a Würenlingen, nel canton Argovia. Tra il 2030 e il 2034 i componenti della centrale nucleare e il resto della struttura dell’edificio saranno smantellati. In Svizzera in totale esistono cinque centrali nucleari in Svizzera. Oltre a Mühleberg, ci sono le centrali nucleari Beznau I e II che sono di proprietà di Axpo e la centrale nucleare di Gösgen. C’è poi la centrale nucleare di Leibstadt, in cui sono coinvolte sei compagnie energetiche come Axpo o Alpiq. Tuttavia ad aprire in Europa e forse nel mondo la strada per le procedure di smantellamento dei siti nucleari e in particolare per quanto riguarda l’economia circolare legata al decommissioning è stata l’Italia. Il 90% dei materiali di una centrale è composto da calcestruzzo e metalli che, una volta decontaminati, possono essere avviati al riciclo. Anche se l’Italia ha pronunciato un “no” storico al nucleare, a distanza di quasi 14 anni dal referendum sul nucleare (8 novembre 1987), siamo ancora ben lontani dalla chiusura di quella coda “velenosa” costituita dalla sistemazione delle prodotte nel corso del tempo e dallo smantellamento delle centrali nucleari. Il nostro territorio è infatti cosparso di siti di raccolta e di stoccaggio di scorie e veleni pericolosi, che costituiscono un potenziale di inquinamento che non è più possibile sottovalutare. Basti pensare che nel febbraio del 1998 è iniziata la scarica del “nocciolo” del reattore di Caorso che aveva ancora, dopo più di dieci anni, la sua carica di combustibile: un esperimento unico al mondo, un reattore carico di uranio e posto per così tanto tempo in “sicurezza attiva”, dimenticato un po’ da tutti. Per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, bisogna stabilire delle responsabilità amministrative ed operative per questa situazione, e chiedere con forza che la decisione dei cittadini italiani di vivere lontani da fonti di potenziale inquinamento radioattivo venga rispettata sino in fondo. Sono ben 173 i casi di traffici illeciti di materiali e fonti radioattive accertati in Europa dal 1992 al 1998; ancora 580mila metri cubi di materiali radioattivi in Europa, di cui 24mila in Italia, giacciono in attesa di adeguato smaltimento. Nei prossimi anni, senza considerare i residui delle centrali nucleari dismesse, se ne aggiungeranno altri 220mila, raggiungendo un volume di 800mila metri cubi. Nel nostro paese oltre 23.000 mc di materiale irradiato, eredità della nostra radioattività nel settore nucleare (impianti nucleari di ricerca, centrali elettronucleari, attività mediche ed industriali) stoccato in parte in 21 depositi progettati inizialmente per essere utilizzati solo come soluzione temporanea. Di questa mole di rifiuti, circa 21.000 appartengono alla prima e seconda categoria, i restanti duemila alla terza, per un attività complessiva di quasi 10 milioni di miliardi di Bq. Tra le situazioni critiche segnaliamo, quelle di Saluggia in Piemonte e di Trisaia in Basilicata. Soprattutto il centro piemontese è oggi la più grande sede di depositi ed impianti per scorie radioattive d’Italia.
Articolo precedenteConfcommercio Sardegna: a Natale una spesa media di 125 euro a persona