A distanza di poco due settimane possiamo dire che, mentre la politica si contorce in un dibattito asfittico e moraleggiante, la giurisprudenza di legittimità torna sulla controversa materia della Cannabis. Non vale la legge sulla coltivazione per la commercializzazione di prodotti a base di Cannabis sativa, in particolare infiorescenze, e quindi vendere derivati della Cannabis sativa è illegale.
Lo spiega la Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza del 147/20, pubblicata il 7 gennaio dalla quarta sezione penale della Cassazione, che s’innesta nel solco della 30475/19, pronunciata dalle Sezione unite penali. Pertanto, il sequestro preventivo scatta non solo per chi vende in negozio le infiorescenze di Cannabis sativa ma anche per chi le fornisce ai commercianti, sia al dettaglio sia all’ingrosso.
E ciò perché, in base alla legge 242/16, è lecita unicamente l’attività di coltivazione delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE.
Si configurano, dunque, i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora del reato di spaccio di stupefacenti: da una parte, la distribuzione delle infiorescenze (marijuana) non è esclusa dall’applicazione del testo unico degli stupefacenti, e dall’altra l’indagato non ha fornito la prova che il commercio dei prodotti persegua finalità agroindustriali, le uniche consentite dalla legge 242/16.
Legittimo il sequestro preventivo che oltre le sostanze ha colpito anche i locali commerciali destinati alla distribuzione dei prodotti: è nelle ulteriori fasi del giudizio di merito che bisognerà accertare se i prodotti oggetto della misura cautelare hanno efficacia drogante e quindi possono o no produrre effetti psicogeni in chi li assume. Così come dovrà essere verificata la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, che esula dal vaglio di legittimità sul provvedimento ablatorio.
Inutile per la difesa sostenere che la cannabis light proveniente da sementi certificate può essere coltivata senza autorizzazione e dunque sarebbe stata “liberalizzata”. In realtà la coltivazione risulta lecita se volta alle finalità agroindustriali indicate in modo specifico e tassativo dalla legge 242/16. E costituiscono, quindi, reato la cessione la vendita e in generale la commercializzazione al pubblico delle infiorescenze, a meno che non siano prive di efficacia drogante; i valori di tolleranza THC indicati dalla normativa – fra 0,2 e 0,6 per cento – si riferiscono invece al principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio.
All’indagato non resta che pagare le spese processuali. La sentenza tuttavia parla chiaro. Dopo aver ripetuto, conformemente al dato normativo, che per integrare il reato di coltivazione è sufficiente la conformità al tipo botanico della pianta e l’attitudine di questa a maturare e produrre sostanza stupefacente, le Sezioni Unite hanno precisato che:
Devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
Possiamo dire di trovarci di fronte alla reintroduzione della provvidenziale nozione di coltivazione «domestica» ritenuta, a differenza della coltivazione «imprenditoriale», non penalmente rilevante. Nello specifico, l’effettuata ricostruzione del quadro normativo di riferimento, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, conduce ad affermare che la commercializzazione dei derivati della coltivazione della cannabis sativa che pure si caratterizza per il basso contenuto di THC, vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici.