Ma cosa significa Amare Se Stessi?
Non è l’argomento del giorno, del mese, dell’anno. Abbiamo sempre avuto, fin dall’infanzia, la necessità al riconoscimento delle nostre emozioni, desiderato poter guardare l’altro alla ricerca di quella comprensione, quella reciprocità, quella condivisione, che avrebbero permesso la libera espressione. “Avrei voluto che…“, “Avrei desiderato tanto…“, “Se potessi tornare indietro…” sono frasi che spesso utilizziamo per rievocare, nostalgicamente, un tempo passato sul quale non abbiamo più potere decisionale. Trattiamo spesso della possibilità di condividere le nostre passioni, i nostri sogni, i momenti semplici e difficili della vita: se avessimo potuto essere quel che siamo adesso l’avremmo probabilmente fatto, se potessimo essere quello che decideremmo di essere adesso potremmo farlo, è una nostra scelta. Ed è proprio nei momenti difficili che cerchiamo l’altro, desideriamo la sua presenza perché, infondo, pensiamo non bastare a noi stessi, guardiamo alla nostra pienezza interiore come inconsistente, non totalizzante. In realtà, si tratta di un diverso processo: Amare se stessi significa riconoscere la propria verità come unica al mondo, la propria essenza come distinta ed allo stesso tempo coesistente con l’altro. Realizzare la nostra personale pienezza equivale a condividerla, perché straripante – l’Amore non chiede nulla in cambio, non ha pretese, non vive di attaccamenti (come, invece, accade per l’ego). Se guardiamo indietro vediamo che nessuno mai è riuscito a trasmetterci un amore incondizionato, perché impossibilitato, a suo modo, al riconoscimento. Siamo stati abituati, dall’educazione, dalla legge, dalle persone attorno che avevano a cuore la nostra crescita, ad un concetto di amore “condizionato”, ad un educazione condizionata dalle aspettative, dalle pretese: ma di chi?
Osservando attorno possiamo renderci conto di quanto questa realtà sia diventata un cliché, un abitudine sulla quale vengono tessuti tutti i rapporti sociali, di coppia, familiari: la riscoperta dell’importanza che abbiamo per noi stessi rappresenta la via d’uscita da tutte quelle situazioni, convinzioni che, in passato, hanno fatto in modo vivessimo secondo regole ben precise, schemi di pensiero-comportamentali sempre meno vicini ai nostri più profondi bisogni. Se immaginiamo di non poter cambiare il mondo in un colpo solo potremmo sbagliarci soltanto auto convincendoci, sempre più, che non c’è nessuno da combattere, nessuno con cui competere (rappresenta questa un infrazione al concetto, sempre più disfunzionale, di libero arbitrio – la Libertà origina all’interno, di conseguenza, si riflette all’esterno), la necessità al confronto che, basato sull’assenza di conoscenza di se, quindi comprensione, realizzazione, tende a trasformarsi in prevaricazione, mancata empatia.
E’ importante non dare giudizi su se stessi, non condannare più niente di ciò che ci riguarda, ne le convinzioni, ne le paure. Sospendere il giudizio è una parte fondamentale del lavoro in quanto rappresenta la prerogativa con la quale ci avviciniamo al nostro profondo – per fare questo necessitiamo di silenziare la mente.
Nessuno è “meglio” di noi, di contro nessuno è “peggio” – non può esistere un alternativa migliore o peggiore, in quanto tutto è funzionale al raggiungimento dell’obiettivo. Ecco perché riconosciamo l’importanza di un percorso anche assente dall’amore incondizionato, se non fosse per il continuo e paradossale tentativo umano di tensione verso la “perfezione”. Ma la perfezione non esiste, l’accettazione Sì: il bambino non pensa, non crede di essere perfetto, semplicemente è, ed in questo modo vive la vita.
Non c’è un alto, un basso, meglio, peggio: iniziare ad abbandonare il senso di colpa del passato, la paura di non riuscire a farcela, la necessità all’apparenza con coraggio può sembrare un modello difficile da raggiungere, in realtà molto semplice, funzionale e più che adatto ai tempi che corrono, alla stregua di un modello ormai passato, arcaico. Riusciresti ad accettare di non sentirti nulla, non sentire le tue stesse emozioni o provarle al minimo? Di fatto, quel che accade è esattamente questo: se fossi pienamente consapevole, a regime di coscienza, di tutti i condizionamenti che ti hanno reso quel che sei adesso, faresti di tutto per uscirne. L’autostima si conquista, ahimè, nel tempo, mediante il riconoscimento della propria persona, scendendo, sempre più, in profondità. E’ un processo graduale di scavo interiore. Alcuni decidono di iniziare intraprendendo un percorso psicoterapeutico (consigliabile), trovare la chiave per comprendere quali che siano i motivi passati trigger della sofferenza che impedisce la visione cristallina di se stessi, a partire dalla nascita di quelle emozioni che hanno segnato l’inizio del crollo della propria autostima.
Guardare ancora all’esterno, sentirsi impossibilitati nel cambiare la propria situazione personale non è d’aiuto, ma piuttosto rimanda, ancora di più, la necessità (personale-collettiva) di un cambiamento radicale (lavorare su se stessi concorre sia alla realizzazione dei propri obiettivi che di quelli collettivi, quindi potremmo parlare di accettazione del prossimo soltanto ad iniziare da se stessi, come possiamo accettare il prossimo se non accettiamo noi stessi? Dai precedenti articoli si evince la necessità di guardare a se, lavorare su di se per non puntare più il dito all’esterno, all’altro quale nostra estensione). Spesso le persone rinunciano ad un lavoro introspettivo per timore della fatica, della caduta, senza nemmeno rendersi conto dell’importanza che ha, a lungo termine, un percorso di questo genere, e terminando, come spesso accade, nella distrazione del piacere, dell’attaccamento, immaginando le cose possano risolversi da sole (il collettivo siamo noi, desiderare un cambiamento esterno significa desiderarlo all’interno – realizzare una vittoria, come potrebbe essere sulle nostre paure, da parte nostra, è una vittoria condivisa, di tutti). Quindi parliamo di una necessità all’attaccamento che manifestiamo mentre parliamo con noi stessi (se parliamo con noi stessi…), mentre pronunciamo frasi come “non valgo niente“, “sento di non essere all’altezza“. Dietro una dipendenza si nasconde, sempre, un disagio più o meno marcato, più o meno profondo al quale rispondiamo frapponendo altrettanti ostacoli, spesso inesistenti, rifiuto verso una soluzione al quale preferiremmo accostarci secondo i nostri parametri (dell’ego), troppo selettivi che rappresentano, spesso, escamotage per aggirare la paura. Tendiamo così ad allontanarci dal disagio, rimandando il momento del confronto, della crescita.
Accettare quel che è stato, il genitore che non è stato in grado di darci quel che sentivamo importante per noi, le prove inevitabili, come potrebbe essere la morte di una persona cara, rappresenta per noi una possibilità, un’opportunità, un personale invito, da parte dell’Universo, al miglioramento, all’avanzamento sul percorso: è la vita che ripropone le stesse prove per darci una seconda possibilità. Inoltre, abbiamo bisogno di superare una ferita che tutti ci riguarda, la ferita dell’abbandono. Abbandono del ventre di nostra madre, di quel mondo protettivo, confortante, avvolgente dal quale avremmo desiderato non separarci: la stessa separazione che ripetiamo, a diverse sfumature, a seconda del nostro livello di maturazione e fino al momento della presa di coscienza, fino al raggiungimento della cosiddetta “indipendenza emotiva” (che corrisponde alla realizzazione dell’importanza che abbiamo di noi stessi), nelle nostre relazioni interpersonali, quindi della secondarietà di ogni altro rapporto – penso ai delicatissimi rapporti di coppia, nei quali desidereremmo poterci mostrare esattamente per come siamo. E’ una selezione che la società ha già fatto, è una decisione che l’Altro ha già preso, non siamo stati in grado di decidere per noi stessi, non abbiamo forse avuto abbastanza coraggio di prendere quella decisione che non spettava all’altro, ma a noi.
Amare se stessi incondizionatamente, ma cosa significa? Significa comprendere che il sentimento del dare, la forma illusoria insita nel meccanismo economico-sociale, condizionato dalle pretese dell’altro è un riflesso del nostro interno: prendere coscienza di quest’importante passo potrebbe rappresentare uno dei tanti motivi che ci spingono alla realizzazione dell’apparenza. Il primo vero motivo, come sappiamo, origina nell’importanza che diamo a noi stessi, alla nostra vita, e dare quest’importanza a noi stessi significa non soltanto prenderci cura di noi, dei nostri bisogni, dei nostri desideri, quanto riscoprire la verità che da sempre caratterizza la nostra vita, la nostra interezza, il Senso della Vita, lo stare al mondo.
La valorizzazione della persona, dal punto di vista giuridico, a fronte di un sistema educativo-sociologico che tende alla ricerca della verità ma esclude a priori la sostanza (l’Amore) purtroppo scade nel nulla di fatto: l’importanza che diamo a noi stessi, la presa di coscienza che quanto si trova attorno non può rispondere al nostro desiderio di riconoscimento, rappresenta più di un opportunità, più di un diritto. Oggi che la necessità al “rispetto” dei diritti, della legge si fa sempre più incisiva, decisiva (perché tale è l’estrema discrepanza fra la vera spinta alla vita, la necessità di ri-scoperta del senso della vita e le convenzioni, i canoni sociali, le creazioni di circostanza) ed assistiamo a scene sociali distanti dal vero concetto di rispetto, non contemplato da nessun codice esistente, eccetto che formalmente dalla Costituzione, necessitiamo di un ritorno a noi stessi. Molte persone, al giorno d’oggi, comprendono, più di ieri, l’importanza del prendersi cura di se, la rivalutazione, la riclassificazione di ciò che è, per davvero, significativo al raggiungimento della consapevolezza, alla concretizzazione del concetto di Benessere Interiore-Esteriore: sono persone che hanno iniziato a lavorare su se stesse, secondo i propri tempi, riuscendo a valorizzare la propria persona, investendo le proprie energie in maniera produttiva, costruttiva. Una persona veramente felice brilla di luce propria, rappresenta un punto di riferimento per tutta la collettività, per l’Altro che, infondo, desidera raggiungere il suo stesso obiettivo (noi siamo il mondo – chi è veramente Felice, Soddisfatto di se, non ha bisogno di guardare all’Altro). Quando pensiamo che possa esserci qualcosa che ci blocca, in realtà ancora permettiamo al passato di riproporsi nel presente, ed avere un passato è naturale, come ritornare all’origine, alla nostra verità, la nostra essenza: c’è grande differenza tra inseguire a tutti i costi il mondo, l’aspettativa dell’altro, attaccarsi all’aspettativa, all’opinione, al giudizio dell’Altro e centrarsi in se, rendersi indipendenti da questi, vivere la propria libertà emotiva, spirituale. Tutto si dissolve, come per incanto, nel momento in cui iniziamo a prendere coscienza che non è la posizione professionale a farci guadagnare il rispetto dell’altro, non l’immagine, il riflesso della proiezione che vorremmo l’altro vedesse: stiamo ancora guardando al giudizio dell’altro, ancora viviamo per la soddisfazione che l’apparenza tende a dare, sul momento, nell’illusione di una Felicità che vorremmo ma non riusciamo a raggiungere. Questa modalità non può essere soddisfacente, ne rappresenta la vera Felicità alla quale aspiriamo alla nascita perché, infondo, sappiamo desiderare qualcosa di molto più importante, ovvero l’integrità interiore – la Pace Interiore: abbiamo un contributo da dare al mondo, il compito consiste nel liberarci delle ombre una volta per tutte, e questo avviene rispondendo alle paure con coraggio, alla paura di crollare perché “non ci sentiamo abbastanza, nessuno è mai riuscito a farci sentire abbastanza” – mentre pronunciamo queste parole portiamo l’attenzione alla consapevolezza che rimane nel presente, alla tendenza che abbiamo nel continuare a guardare il passato come qualcosa di attuale. In questo senso, necessitiamo di ri-definire l’importanza che diamo al pensiero, alla credenza, alla convinzione del passato. Un passato che, ricordiamo, non esiste più.
Iniziare a cambiare, per davvero, significa rispondere diversamente al quel giudice che si trova al nostro interno, comunicare con lui senza riserve. Possiamo anche tenere un diario, se lo desideriamo, sul quale annotare tutte le cose che riteniamo positive e quelle che riteniamo negative, sulla nostra persona. Il nostro obiettivo rimane il rilascio di tutte le paure che abbiamo sviluppato nel tempo, dall’infanzia fino ad oggi: per fare questo abbiamo bisogno di prendere coscienza della nostra importanza, dell’importanza che abbiamo per noi stessi: nessuno può saperlo meglio di noi, nessuno conosce i nostri desideri in profondità più di noi. In questo senso riusciamo a farci valere all’esterno, nelle piccole grandi prove di ogni giorno, insieme all’Altro: infondo, i diritti esterni che andiamo richiedendo rappresentano soltanto una giustificazione a quello che immaginiamo non poter dare a noi stessi, i confini tracciati dall’Altro in passato, dentro di noi, che abbiamo interiorizzato. Sono le paure che non ci hanno permesso di spiccare quel volo che avremmo tanto desiderato, fin dall’inizio.
L’autostima non rappresenta, quindi, soltanto un modo per riconoscere e valorizzare le proprie potenzialità, le proprie qualità, ma anche, e soprattutto, la necessità di liberarci da tutti quei meccanismi sociali tesi all’intimidazione, specchio del nostro disagio interiore, della presunta incapacità nel guardarci dentro, nel darci quello che sentiamo di meritare. In questo modo sentiamo di dover cercare all’esterno qualcosa che pensiamo di non poter raggiungere singolarmente, attori di una società che chiede sempre più ma che sta cercando, infondo, di comprendere il senso alla condivisione, dello stare insieme (Senso della Vita).
Il mio disagio è il disagio dell’altro, la mia paura la paura dell’altro: non c’è separazione fra me e l’altro.
Questa verità la realizziamo nel momento in cui prendiamo coscienza dell’estrema, semplice, naturale, importanza della nostra singola presenza nel mondo: è una presenza che fa la differenza, a prescindere da ogni cosa, ogni diritto esistente, trasmesso in forma orale o scritta – la carta sparirà, non la nostra essenza, non la verità di quel che siamo, la Verità dell’Amore.
Cosa significa darci quel che sentiamo meritare? Semplicemente che gli insegnamenti trasmessi, per quanta importanza possano aver avuto per i nostri antenati, ora per noi, non sono la cosa più importante: riconosciamo l’importanza della nostra sola presenza, in quanto esseri umani, della nostra unicità, la nostra creatività.
Ri-conquistiamo l’autostima, ovvero la capacità di riconoscimento di tutte quelle potenzialità nascoste, più in profondità… del senso della vita, il quale racchiude tutti i princìpi universali che la società occidentale continua, per mezzo della convinzione che affonda sull’apparenza, convenzionalmente, ad eludere – l’importanza, la priorità data alla distanza con l’Altro. Ancora la necessità di stabilire “confini” fra noi e gli altri, quale unica possibilità al perseguimento degli obiettivi singoli e comunitari, non è più una visione funzionale alla profonda trasformazione che sta avvenendo, come evidenza di un mondo interiore non compreso a pieno, non accettato: non abbiamo abbastanza conoscenza di noi stessi, non abbiamo abbastanza riguardo nei confronti della preziosità della vita.
Cercare gli strumenti più adatti al perseguimento di questa conoscenza è il regalo più bello che possiamo farci, anche un modo per realizzare il rilievo del termine cura. Sobbarcarci dei problemi degli altri, delle loro paure è abbastanza pesante per noi che necessitiamo di risolvere con le nostre, prenderci del tempo per stare con noi stessi, magari in solitudine – potremmo allora preferire, ritagliare attimi, periodi di tempo per stare da soli con noi stessi e fare le cose che più ci piacciono senza sacrificare la nostra presenza con l’Altro.
E’ un lavoro che spetta a noi, è una nostra possibilità. La comunicazione presuppone la presenza di un interlocutore, ma in questo mondo, nella società odierna, noi che desideriamo trasmettere all’altro, condividere i nostri punti di vista, le nostre idee, specie ultimamente, non ci assicuriamo di questa presenza, preferiamo continuare a parlare nella convinzione che l’Altro stia ascoltando, in realtà quasi mai è così e le nostre argomentazioni finiscono nel dimenticatoio, in quanto all’Altro non arriva nulla di quello che vorremmo trasmettere. Potrebbe essere utile chiedersi circa la qualità del dialogo abbiamo con noi stessi, quanto tempo dedichiamo al nostro dialogo interiore. Per poter comunicare con l’Altro abbiamo bisogno di comunicare con noi stessi, altrimenti si tratterà di un monologo – ecco che la comunicazione con l’Altro sarà indicativa della trasparenza, dell’Accettazione di noi stessi.
Amare se stessi significa molto più che gestire il tempo in maniera ottimale, e va al di la di qualsiasi pensiero, concezione. E’ la realizzazione di qualcosa da sempre esistente, insabbiata dai condizionamenti del tempo, dell’Altro.
L’ingrediente principale per questa ricetta si chiama Forza di Volontà e si trova dentro ognuno di noi.
Daniele Fronteddu