Una raffinata partitura per corpi in movimento, dove si fondono e si confondono la natura terrena e le visioni mistiche delle creature in balìa della fortuna e dei propri desideri: i “Carmina Burana” suggeriscono, come spiega l’artista francese, «le immagini di un maremoto», di una tremenda catastrofe cui seguirà forse, come dopo l’apocalisse, una resurrezione, una novella infanzia del cosmo. Sulle note del capolavoro di Orff, enigmatiche figure paiono sorgere dalla Terra mentre vagano le «anime erranti» sospinte dalla buona e dalla cattiva sorte, accanto alle apparizioni delle dèe e regine del mito, reinterpretate in chiave moderna: dall’epifania di Venere, simbolo della bellezza e dell’amore, a Flora, divinità dei fiori e dei giardini e Fortuna, signora del caso e dei destini, dispensatrice di felicità o infelicità, a Febe, la titanide figlia di Urano e Gea, ammantata di luce lunare. E ancora Ecuba, sposa di Priamo re di Troia, sovrana potente poi mater dolorosa e la bella Filomela, protagonista di una favola crudele, infine tramutata in usignolo.
La splendida ouverture “O Fortuna” – una musica «scura, pesante, tellurica, ctonia» – si diffonde e avvolge tutto come un’«ombra luminosa», su cui si stagliano le sublimi creature evocate dal coreografo: «sei donne che dominano l’umanità e rappresentano il sacro, l’amore, la povertà, il potere, la salute, il coraggio e l’angoscia. Flora in floreale, Fortuna in rosso, Ecuba in nero, Febe in giallo, Filomela in viola, Venere color carne trasparente». In queste magnifiche incarnazioni del divino e dell’umano si riflettono il ciclo delle stagioni e la forza della natura, i sentimenti e le emozioni, ma anche «il potere del pensiero e l’elevazione della spiritualità».
Sotto i riflettori undici danzatrici (Yumi Aizawa, Céline Allain, Ornella Capece, Angèle Cartier, Diana Duarte, Léa Mercurol, Tiffany Pacheco, Mohana Rapin, Sara Shigenari, Lysandra van Heesewijk e Madeline Wong) e undici danzatori (Valentino Bertolini, Adelson Carlos, Zachary Clark, Andrei Cozlac, Armando Gonzalez Besa, Xavier Juyon, Juan Perez Cardona, Simone Repele, Sasha Riva, Geoffrey Van Dyck e Nahuel Vega) abitano la scena, mentre i costumi di «On aura tout vu» Livia Stoianova e Yassen Samouilov, il disegno luci di Olivier Tessier e la drammaturgia di Agnès Izrine (répétiteur Steven Chotard) contribuiscono a creare la malìa di un paesaggio dell’anima tra incubo e visione mistica
Claude Brumachon, formatosi all’istituto delle Beaux-Arts a Rouen, folgorato dalla danza, nel 1978 entra nei Ballets de la Cité de Rouen, per intraprendere appena due anni dopo, nel 1980, la sua ricerca coreografica assieme a Benjamin Lamarche, interprete privilegiato e complice di tutte le sue creazioni. Nel 1981 con “Atterrissages de corneilles sur l’autoroute du sud” si aggiudica tre premi al concorso coreografico di Bagnolet. Fondata la compagnia Les Rixes, nascono lavori come “Texane”, “Folie” e “Festin” e nel 1992 i due artisti creano il Centre Chorégraphique National de Nantes, dove resteranno fino al 2015. Una danza energica e tormentata, che scaturisce dal corpo, capace di slanci lirici ma profondamente legata alla materia e alla “carne” caratterizza le loro opere, in cui confluiscono molteplici suggestioni, stili, tradizioni e culture attraverso l’incontro e il confronto con artisti e compagnie di diverse regioni del mondo, dall’Europa all’Africa all’America Latina, con interessanti sinergie e collaborazioni oltre a un’inesauribile curiosità intorno all'”arte vivente”. Nel 2016 Claude Brumachon e Benjamin Lamarche diventano coreografi associati al Centres culturels municipaux di Limoges, e dall’attenzione per le diversità nasce “La Croisée des routes a la Chapelle sur Erdre”, una creazione per nove danzatori diversamente abili, quasi a confermare come l’arte possa infrangere barriere reali e metaforiche, ridisegnando i confini del corpo.
Nella sua rilettura dei “Carmina Burana” il coreografo, personalità di spicco nel panorama della danza contemporanea francese e non solo, traduce in una trama visionaria la dimensione onirica e poetica del corpus, trasfigurandola attraverso gli accenti evocativi delle “Cantiones profanae cantoribus et choris cantandae, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis” di Carl Orff tra riferimenti all’immaginario popolare e alla grande tradizione della cultura occidentale. Un’opera intrigante in cui s’intrecciano danza, musica e poesia, passioni terrene e tensione spirituale, tra esplosioni di energia e momenti più lirici e sospesi, con la rappresentazione allegorica di quello che Claude Brumachon definisce «un dramma umano ispirato da un testo eminentemente politico, che, pur scritto nel Medioevo e malgrado la nostra lacunosa memoria, fa ancora parlare di sé nel XXI secolo». Una creazione originale, che riflette la poetica dell’artista francese, tra sequenze vertiginose e atletici virtuosismi, in un susseguirsi di «cadute e risalite», racchiusi in una struttura ciclica che inizia e termina nel segno della dea Fortuna, volubile e capricciosa come la luna, specchio e sintesi di un’estetica contemporanea che ricerca «qualcosa di non finito che porta al finito», in una evoluzione infinita tra «la linea e il caos».