Alessandro Sicardi nasce a Genova e attualmente risiede a Milano, ha un curriculum artistico di tutto rispetto e può vantare importanti collaborazioni discografiche. Tra le più rilevanti ricordiamo quelle come chitarrista, bassista e arrangiatore-orchestratore con: Stefano Tessadri, Folco Orselli, Stefano Piro (ex leader dei Lythium), Gnut, Yalda. Ha fatto parte della Band Ottavo Richter e collaborato con 4friens film per Miu e Prada.
Di seguito anche alcune delle sue esperienze come insegnante (chitarra e basso elettrico):
– 2007-2011 Accademia Musicale d’Arte e Musica di Monza
– 2011-2014 Accademia Arcadia di Milano
– dal 2011 Centro Musica Insieme di Nova Milanese
– dal 2016 Arte & Musica Milano
Nel novembre 2018 interviene, inoltre, come Visiting lecturer al Politecnico di Milano (Scuola di Design, corso di Tecniche di Narrazione) per una lezione/conferenza sul “Ruolo della colonna sonora in ogni prodotto multimediale” (Prof. Davide Pinardi).
“Cliché”, lungi dall’essere un cliché, (scusando il gioco di parole) è un album ricco di sfumature colorate. Le canzoni sono un tripudio di melodie e ritmi in cui funk, soul, rock, dance e pop sembrano rincorrersi, incrociarsi e rinvigorirsi nell’utilizzo di diversi linguaggi musicali, in una piacevole relazione armonica tra loro. A tal punto che, le contaminazioni diventano uno dei tratti distintivi della sua arte.
Il desiderio di evasione presente nel brano “I want to be” ci fa sognare ad occhi aperti. L’importanza della verità in ogni ambito della nostra vita a qualunque costo è invece il tema del brano “Tell me the truth” che invita a riflettere. “Black Coffee” ci fa vestire i panni di chi, senza una meta, rischia di perdersi nella disperazione di trovarsi senza identità. “Cliché Dance” che è un po’ la canzone tilte track, mette in evidenza le noiose frasi fatte, il solito cliché di generi musicali mainstream, per poi evolvere in rime, accordi e parole che rievocano inevitabilmente immagini nonsense. Queste, così come tutte le canzoni dell’album, fanno venire a galla sfumature emotive che sembrano ripercorrere pezzi della nostra stessa vita.
“Monday Party” è il singolo che anticipa l’album, un brano che fa capolino tra la musica degli anni 70 e 80 con chitarra e batteria disco funk intervallate da sonorità cupe e intense in grado di avvolgere completamente l’ascoltatore in una ritmica seducente e accattivante. Un testo particolare, reso ancora più affascinante dal mistero nel quale è avvolto il protagonista del brano. Un uomo che esce tutte le sere, quasi come se fosse costretto, un essere vagante che muovendosi ogni notte, tra una festa e l’altra cerca qualcosa, incapace di spezzare quel circolo vizioso nel quale è imprigionato. Il testo, anch’esso in inglese, lascia intuire, tra le righe, qual è la sua vera natura. Possiamo scoprirla insieme ascoltando il videoclip ufficiale del brano, per la regia dello stesso KAPE. Intanto conosciamo meglio l’autore, Sardegna Reporter ha il piacere di incontrarlo per chiacchierare un po’ con lui.
Ciao e grazie di essere qui con noi.
“Espressione e comportamento stereotipato, frase fatta, luogo comune…” questa la definizione del termine cliché nel dizionario della lingua italiana. La tua è una musica complessa in cui riflessioni esistenziali e presa di coscienza di sé fanno capolino in un gioco di musica colorata di ritmi e melodie originali. Insomma, una musica agli antipodi di qualsiasi cliché, perché la scelta di chiamare così l’album frutto del tuo primo lavoro solista?
Probabilmente perché sento molti luoghi comuni nella musica mainstream, sia dal punto di vista testuale che da quello musicale. Il titolo dell’album proviene da uno dei brani, “Cliché dance”, in cui i primi versi propongono frasi trite e ritrite; come dopo un cortocircuito però, dalla seconda strofa la mente vaga liberamente, guidata soprattutto da rime, assonanze e giochi di parole. E alla fine il risultato nonsense di questo vagheggiamento risulta avere più significato dell’incipit basato su frasi fatte.
Polistrumentista, arrangiatore, orchestratore, compositore. Un artista eclettico e minuzioso osservatore della realtà, che si muove fra differenti generi musicali. Pensi che la varietà, la diversità e la voglia di sperimentare siano fondamentali per creare musica che vale?
Sicuramente: penso che superare i cliché -appunto- come i generi e le etichette sia fondamentale. Personalmente sono cresciuto ascoltando e suonando classica, pop, rock, jazz, musica brasiliana, funk, tango… Sono il risultato di tante influenze ed esperienze diverse che mi hanno tutte lasciato qualcosa, che lo voglia o no, e quindi amo molto la contaminazione.
Il singolo “Monday Party”, apripista dell’album Cliché, è una rappresentazione un po’ seria e un po’ no di un uomo schiavo della vita mondana che ogni sera rincorre alternative alla noia della quotidianità, ma in realtà è solo vittima di una delirante routine. “…Sunday maybe”, è la frase che chiude il brano, forse è una domanda poco attenta, ma perché la domenica è incerto se uscire o no?
In effetti il protagonista della canzone è mondano per motivi di sopravvivenza: non viene mai rivelato dal testo, ma si tratta di un vampiro. La domenica per lui è un po’ un giorno tabù, perché è il giorno sacro, nonché il giorno del sole (sun-day); e diciamo che i vampiri non amano particolarmente nessuna delle due cose…
Non è semplice definire la creatività in maniera non riduttiva, ma come definiresti la tua? Cosa ti ispira nella creazione di un brano?
Il suono, in generale… Parto quasi sempre da un’idea melodica, e mi faccio ispirare dall’atmosfera per quanto riguarda il testo, oppure da parole che mi “guidano” perché le sento sulla stessa lunghezza d’onda della musica.
Quale, secondo te, è la pozione magica che porta una canzone al successo?
La musica – purtroppo o per fortuna – segue le regole del mercato, è un’industria, per cui non credo che ci siano pozioni magiche. Ci sono investimenti, idee di marketing, bombardamenti mediatici, e questo indipendentemente dal contenuto. Quindi capita che ci siano canzoni famosissime di scarsa qualità (e non sto parlando di gusti, ma proprio di materiale da discount nei contenuti e nelle forme), e la cosa non mi scandalizza. Quello che mi dispiace invece, è che un sacco di artisti che a mio avviso dovrebbero essere conosciuti, non lo sono.
Cosa c’è nel tuo modo di esprimerti attraverso la musica che ti rende unico rispetto agli altri artisti?
Probabilmente una mia caratteristica testuale è quella di giocare con le parole, e chi mi conosce lo sa benissimo. Per quanto riguarda l’aspetto musicale non saprei dirlo: sicuramente sono molto “meticcio” come chitarrista e come compositore; come cantante non mi pronuncio perché sto ancora imparando a conoscermi in questo ruolo.
C’è un brano in particolare nell’album “Cliché” che rispecchia maggiormente il tuo modo di intendere la vita?
In generale tutti, ma sicuramente “After the moonrise” è la canzone più autobiografica dell’album. In essa parlo in maniera piuttosto ironica della mia pigrizia “fisica”, contrapposta all’energia emotiva ed intellettuale che uso nel mio lavoro. Ovviamente questo tema tocca tutti i performer che salgono su un palco: spesso si sottovaluta tutto ciò che sta “a monte” e ciò che viene vissuto da chi si mette a nudo di professione.
Pensi che sia più difficile arrivare al pubblico per chi crea musica originale?
Diciamo che c’è più diffidenza iniziale nei confronti dei progetti originali, spesso anche da parte dei locali in cui si suona. Ma comunque, ad arrivare alle persone devono essere capaci tutti, che facciano musica propria o no.
Raccontaci l’emozione di salire su un palco
Non è paragonabile ad altre sensazioni. Trasmetti la tua energia ad altre persone, che sono in primis i tuoi compagni di palco e poi il pubblico, e loro ti trasmettono la loro. Ogni live sarà sempre, sempre diverso, perché noi siamo fatti di tante di quelle variabili che non ha nemmeno senso contarle.
In questo momento a che punto sei della tua vita artistica? Cosa desideri per il tuo futuro musicale?
Il mio percorso artistico è sempre stato molto variegato e continua ad esserlo, fortunatamente. In futuro vorrei intensificare i concerti all’estero, anche perché il mio album è in inglese e potrebbe, in questo senso, aprire nuove porte.
Vorrei concludere questa intervista dandoti, se ti va, la possibilità di toglierti il classico sassolino dalla scarpa, puoi dire quello che vuoi.
Penso che viviamo in un periodo terribile dal punto di vista culturale e sociale. Mi viene in mente quello che cantava Bob Marley in “Redemption song”: nessuno tranne noi stessi può liberare la nostra mente.
Link al videoclip ufficiale:
Sabrina Cau