Venerdì, il presidente Donald Trump ha annunciato l’abolizione di una norma introdotta nel 2014, durante l’amministrazione precedente.
Per l’esattezza, la decisione di Barack Obama prevedeva di rispettare parzialmente il trattato di Ottawa sulla messa al bando delle mine, ratificato da 164 Stati in tutto il mondo (tra cui anche la Svizzera), per vietare l’uso, lo stoccaggio, la produzione e il trasferimento di mine antiuomo.
Gli Stati Uniti non sono tra i firmatari, ma dal 1991 non hanno più fatto ricorso a questo tipo di arma, se non nel 2002, in Afghanistan. Obama, poi, aveva vietato l’uso delle mine antiuomo, con l’eccezione della penisola coreana, dove l’esercito americano si era riservato il diritto di utilizzarle.
I nuovi ordigni “avanzati”, che le forze armate statunitensi potranno ora utilizzare, sono destinati ad autodistruggersi se non vengono attivati dopo un certo periodo di tempo.
Le mine antiuomo sono note, infatti, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, per continuare a uccidere o ferire gravemente anche molto tempo dopo la fine di un conflitto, un’eredità perdurante dei conflitti. Sono progettate per esplodere alla presenza, in prossimità o contatto di una persona o di un veicolo. Sono proprio i civili, spesso anche anni e decenni dopo la fine dei conflitti, le vittime principali, soprattutto i bambini.
Sia le mine terrestri sia i residuati bellici rappresentano una seria e continua minaccia per i civili. Queste armi si trovano su strade, sentieri, campi agricoli, foreste, deserti, lungo i confini, nei pressi di case e scuole circostanti e in altri luoghi dove le persone conducono le loro attività quotidiane.
Negano l’accesso al cibo, all’acqua e ad altri bisogni di base e inibiscono la libertà di movimento, impediscono il rimpatrio dei profughi e degli sfollati interni e ostacolano l’invio degli aiuti umanitari.
Secono il “Rapporto 2019 sulle mine antiuomo“, presentato a Ginevra e Oslo, nel 2018, le persone uccise sono state 3.059 e quelle ferite 3.837, in totale 6.897 vittime, quasi il doppio rispetto alle 3.457 registrate cinque anni prima, nel 2013.
L’aumento sarebbe collegato ai conflitti e alle violenze su larga scala che hanno interessato Afghanistan, Mali, Myanmar, Nigeria, Siria e Ucraina. Le esplosioni si sono comunque verificate in 50 Stati e altre aree. Le vittime sono per il 71 per cento civili, di cui oltre la metà, 45 per cento, bambini.
Dall’inizio delle attività di monitoraggio, nel 1990, sono state registrate 130mila vittime, di cui 90mila sopravvissuti, sovente con gravi mutilazioni. Sono cifre in difetto, dato che spesso non vengono registrate le vittime a causa di situazioni di conflitto in corso o di instabilità sociale o di sottosviluppo.