Benedetta, quale ricordo hai della tua infanzia?
“Ricordo che ero accompagnata dalle favole. A casa avevamo un mangianastri che mi ascoltavo durante i pranzi, in macchina, nei momenti liberi. Ora che ho riscoperto quelle favole mi commuovo, perché mi rimanda a un mondo senza preoccupazioni, perché hanno influito anche sulla mia padronanza del linguaggio. Oggi girano delle favole dal linguaggio sciocco, quelle avevano dei linguaggi ricercati, che andavano spiegati ai bambini. Ora anche mio figlio ascolta queste favole, le richiede, e tramite lui sono ritornata a quel periodo. Se non capivo qualcosa, rimaneva il mistero di una parola che in futuro avrei compreso, ma che comunque c’era già nel mio vocabolario personale. E per me, che lavoro proprio con il linguaggio, questo è importante”.
La parola è mistero?
“Secondo me, è il contrario. La parola è responsabilità, perché pronunciare parole menzognere o approssimative è una responsabilità nei confronti degli altri. La parola serve a svelare il mistero. Non solo la Parola di Dio, che in qualche modo ci incanala nella comprensione di cose che di per sé sono misteriose e ultime. Però fra gli uomini chi ha il dono di un’eloquenza particolare, ha una ricchezza incredibile: riuscire a facilitare la comprensione di se stesso e degli altri. La parola è uno strumento di chiarezza”.
Hai una grande esperienza, dalla radio dei salesiani con Meridiano 12 a Radio Vaticana e a Radio2. C’è una relazione diversa con le parole dalla radio alla televisione?
“Sì, è immensamente diversa. La radio è per me quello che erano le favole da bambina. Io stessa, soprattutto nell’esperienza a Radio Vaticana, in alcuni programmi ho fatto una serie sui personaggi italiani illustri ma sconosciuti, li raccontavo come favole. Il potere dell’immaginazione e la libertà che il narratore e l’ascoltatore hanno di rivivere quella storia, magari con l’ausilio della musica, in cui ognuno si figura il volto, il contesto. Nella televisione, la parola risulta invece ingabbiata dall’immagine. Non c’è la calma dell’ascolto che, invece, c’è in radio. Oggi la tv chiede di andare al di là dell’immagine, sennò è il parco giochi dell’inutilità”.
C’è un programma televisivo che ti piace guardare?
“Sono una patita delle fiction, tant’è che con mio marito ci stiamo guardando tutte le repliche di Un passo dal cielo, perché a mio marito piacciono molto le montagne e a me le fiction, per cui abbiamo trovato un compromesso. Oppure Don Matteo. Questo tipo di fiction mi piace molto per il semplice fatto che finiscono a lieto fine e sono rassicuranti. Ho voglia delle cose ‘finte’ che finiscono bene”.
C’è bisogno di buone notizie oggi?
“Le buone notizie raramente pagano in termini di ascolto. Prendiamo le favole, per esempio. Dopo una situazione positiva subentrano le difficoltà e il personaggio deve solo contare sulle sue forze oppure sugli amici e poi tutto si risolve. Ci vuole, quindi, il negativo che irrompe nel positivo. È una regola fissa, anche nelle fiction che citavo poc’anzi, come Don Matteo, ‘il morto ci scappa sempre’. La notizia buona di per sé ci può essere se inframmezzata da quelle negative. Il troppo buono non ha un appeal: forse va trovata la formula giusta. Bisognerebbe raccontare anche il negativo in una maniera positiva. Ricordo che, quando feci la Vita in diretta – Estate, venne l’allora direttore di Rai Uno Andrea Fabiano per dire quale fosse la sua idea di cronaca: ‘Siamo la tv di Stato, per cui il fatto esiste. Vorrei, però, che non s’inducesse in dettagli macabri, ma si mostrasse come lo Stato opera per risolvere queste cose’ disse. Io apprezzai molto quelle parole, che non eclissavano il racconto del fatto, ma integravano il racconto con una via d’uscita possibile. Parlare solo di notizie cattive porta ad un’atomizzazione della realtà, perché se il mondo è cattivo io mi chiudo in me stesso. Se, invece, apriamo gli occhi, vediamo che c’è gente buona. Io credo fermamente nella bontà intrinseca delle persone. Il problema è che se noi non lo facciamo capire, pensiamo che sono tutti dei delinquenti”.
Quest’anno ricorrono i 70 anni dall’uscita di Cenerentola. Si tratta di un personaggio che mette in nuce il rapporto tra la donna e il lavoro. Com’è il rapporto della donna con il lavoro, oggi?
“In alcuni casi, siamo le Cenerentole del lavoro. Siamo sprovviste di mezzi per reagire ad un certo tipo di soprusi, come uno stipendio più basso rispetto a quello maschile, oppure la difficoltà ad avere figli senza rischiare di perdere il lavoro. Nel mio lavoro sono sempre stata tutelata per la correttezza delle persone, ma sono al corrente che in tanti altri ambiti bisognerebbe regolamentare alcuni casi. Ritornando a Cenerentola, si pensa spesso che sia stata salvata dalla madrina. In realtà, ha fatto ricorso alle proprie forze, aveva le sue amicizie, una gentilezza e capacità di sopportazione tenace, senza cambiare una virgola della sua essenza. Quella è una forma di resistenza. Un approccio aggressivo delle donne, anti-maschile è una guerra fra generi che non porta alcun risultato. Dobbiamo, invece, insistere sulla nostra capacità di affrontare le cose, che può essere una ricchezza sul luogo di lavoro, come affrontare più problemi insieme, l’abitudine a valorizzare le persone…sono tutte cose che farebbero bene al mondo del lavoro”.
Cosa serve alle donne, quindi?
“Un supporto su misura per noi, per accedere al mondo del lavoro senza rinunciare al nostro essere donne, che è dare la vita, per esempio. Altrimenti vuol dire che la società mi condanna a venir meno a una delle mie caratteristiche fondamentali, come assistere i parenti. Le donne molto spesso fanno l’una e l’altra cosa. Questo non è uno Stato equo. Non va bene mascolinizzarsi e rinunciare a una parte di sé. Lasciando stare chi lo sceglie deliberatamente, tante donne lo fanno forzatamente, perché è una scelta obbligata. In altri Paesi hanno già fatto questo salto culturale”.
Progetti per il futuro?
“Innanzitutto, crescere mia figlia appena nata, poi riprendere l’attività lavorativa. La bellezza di una gravidanza e la maternità non compensano tutto quello che una donna può essere. Posso essere madre e attivamente coinvolta sul lavoro. Mi auguro di poter riprendere al più presto e riabilitarmi con le mie forze”.
Marco Grieco