Ciò vale anche nel caso in cui questa sia titolare di provvidenze ed anche dell’indennità di accompagnamento, in questo caso per una somma complessiva di 1300 euro mensili e pure quando viva nella casa di sua proprietà. Inoltre, per i giudici di legittimità il convivente della donna ha diritto di essere ristorato per i danni morali subìti a causa della mancata assistenza da parte dei figli ma non a essere ripagato di quanto eventualmente sborsato per garantire alla compagna un’esistenza più dignitosa.
Nella fattispecie, infatti, i giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso dei tre figli di un’anziana in dialisi e affetta da demenza perché ad un certo punto si erano rifiutati di contribuire alle spese necessarie a garantire alla donna una vita più dignitosa. Confermata, quindi, la condanna della Corte d’Appello di Firenze che aveva già ritenuto irrilevante la circostanza che il compagno della donna coprisse le spese necessarie. In tal senso, hanno precisato i Giudici di Piazza Cavour, che lo stato di bisogno del beneficiario non è escluso dall’intervento di terzi (neanche se coobbligati o obbligati in via subordinata), per cui il reato è integrato anche se qualcuno si sostituisce all’inerzia del soggetto tenuto a somministrare i mezzi di sussistenza.
Ma vi è di più. Il partner ha sicuramente diritto ai danni morali ma non a quelli patrimoniali per le spese sostenute. Tale principio deriva dal fatto che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nel confronti dell’altro, che sono espressioni del vincoli di solidarietà e affettività di fatto esistenti e si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, ma senza assumere la cogenza giuridica di cui all’art. 43, comma 2, cod. civ..
In questi casi, dal rapporto fattuale non sorge un’obbligazione civile ma un’obbligazione ai sensi dell’articolo 2034 del codice civile ossia di natura “morale o sociale”, per cui soltanto dopo che si è verificato lo spontaneo adempimento della obbligazione naturale, la prestazione assume rilevanza giuridica e non può essere ripetuta perché si è prodotta la cosiddetta soluti retentio, ossia il diritto di trattenere la prestazione che sia stata spontaneamente adempiuta. Ne consegue che «le attribuzioni patrimoniali in favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ.». Tuttavia, tale obbligazione naturale vale solo nei confronti della persona convivente e non anche dei suoi figli, per cui non ha fondamento una pretesa di risarcimento nei loro confronti.