«Il pronto soccorso – afferma Mario Oppes – ha definito 2 percorsi distinti: uno per i casi sospetti per infezione da virus SARS-CoV-2 e uno per i pazienti che non rientrano nei criteri di sospetto. Attraverso la valutazione di una serie di criteri clinici ed epidemiologici, i pazienti vengono indirizzati verso uno dei due percorsi durante le fasi di pre-triage e triage».
In questo caso, spiega ancora Mario Oppes «i casi sospetti vengono gestiti in un’area di isolamento all’interno della quale il personale utilizza determinati dispositivi di protezione (tuta impermeabile con cappuccio, maschera FFP2 o FFP3, doppi guanti, stivali, occhiali e visiera protettivi), mentre tutti gli altri seguono il secondo percorso, all’interno del quale tutti gli operatori indossano una divisa con sovra-camice monouso, copricapo, guanti e mascherina chirurgica. Vengono poi seguite tutte le altre misure di prevenzione del contagio quali disinfezione delle mani, degli strumenti e degli ambienti. Tutti i pazienti indossano naturalmente la mascherina chirurgica».I due dirigenti medici spiegano, inoltre, che «la paziente non aveva le caratteristiche previste dal ministero della Salute per l’esecuzione di un tampone che, tuttavia, è stato precauzionalmente effettuato appena possibile. Infatti in queste condizioni, trattandosi di una patologia tempo-dipendente, ogni ritardo avrebbe ingiustificatamente compromesso le possibilità di sopravvivenza della paziente. Si tratta di una patologia cioè che richiede il rispetto di limiti temporali ben precisi perché i provvedimenti terapeutici indicati possano risultare efficaci. Non sarebbe stato mai possibile pensare di vincolare il percorso al risultato del tampone.
«Il percorso utilizzato ha comunque evitato contatti a rischio con altri pazienti», concludono Mario Oppes e Antonello Serra.