Ogni anno, il 12 maggio si celebra la Giornata internazionale dell’infermiere. Il 2020, sarà ancora più speciale in quanto ricorre il bicentenario delle nascita di Florence Nitingale, madre dell’infermieristica moderna.
A partire dal 21 febbraio, giorno in cui la pandemia da coronavirus è esplosa nel nostro Paese, infermieri – ma anche medici – sono stati definiti eroi, in loro onore sono stati organizzati flashmob, murales sono apparsi sulle facciate dei palazzi per rendere omaggio a questa categoria di lavoratori. Iniziative bellissime, ma troppo spesso gli infermieri sono sottovalutati e messi nelle condizioni di non poter manifestare il loro vero valore.
L’anno dell’infermiere e l’ostetrica
Ben prima dell’inizio della pandemia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva annunciato che il 2020 sarebbe stato l’anno dedicato all’infermiere e all’ostetrica. Il motivo?
«Svolgono un ruolo vitale nella fornitura di servizi sanitari. Sono le persone che dedicano la propria vita alla cura di madri e bambini; dare vaccinazioni salvavita e consigli sulla salute; prendersi cura delle persone anziane e in generale soddisfare i bisogni sanitari quotidiani essenziali».
Gli obiettivi che l’OMS si è posta per questo anno sono:
- celebrare i contributi degli operatori sanitari, con particolare attenzione agli infermieri e alle ostetriche, nel miglioramento della salute a livello globale;
- riconoscere e apprezzare e affrontare le difficili condizioni che gli infermieri affrontano fornendo al contempo assistenza dove è maggiormente necessario;
- sostenere maggiori investimenti nella forza lavoro infermieristica e ostetrica.
Le celebrazioni
A causa della pandemia non si potrà celebrare questa giornata in presenza, per questo la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) ha programmato di festeggiare la ricorrenza online, puntando sul web e sui social per diffondere contenuti inediti dedicati alla professione.
Sarà anche l’occasione per rilanciare la campagna di raccolta fondi #NoiConGliInfermieri, mirata a erogare contributi immediati e concreti ai professionisti che sono stati contagiati dal coronavirus.
L’intervista a Barbara Mangiacavalli (FNOPI)
Per approfondire quali sono le reali condizioni di lavoro degli infermieri, se sono stati abbastanza tutelati nel corso di questi mesi di lotta contro il coronavirus, cosa dovrebbe fare in più per loro lo Stato, Interris.it ha intervistato la presidente della Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI), Barbara Mangiacavalli.
Presidente, questa pandemia, oltre ai medici, ci ha fatto riscoprire il ruolo essenziale degli infermieri?
“Non credo ci fosse bisogno di scoprirlo. Gli assistiti che hanno a che fare con gli infermieri lo sanno e le testimonianze maggiori in questo senso vengono, ad esempio, da quelle categorie più fragili che altrimenti, anche in assenza di COVID, rimarrebbero sole ad affrontare i loro bisogni di salute sul territorio. Parlo dei malati cronici, dei non autosufficienti, degli stessi anziani. Oltre ai singoli ci sono ogni giorno testimonianze delle associazioni che li rappresentano che riconoscono l’essenzialità degli infermieri, sia dal punto di vista professionale che umano, perché il rapporto umano con gli assistiti è una prerogativa forte della nostra professione. Per spiegare meglio faccio un esempio, una frase che una importante associazione di cittadini-pazienti ha detto, in occasione del loro patrocinio al fondo che abbiamo costituito come Federazione per aiutare gli infermieri bisognosi, a causa delle conseguenze di COVID, da quelli in quarantena alle famiglie dei defunti:
«COVID-19 ha solo messo in luce ciò che noi malati già sapevamo, perché i pazienti osservano, apprezzano, si confidano, parlano con i loro amici infermieri che sentono vicini come persone di famiglia che si prendono cura di loro nel momento della sofferenza e della paura per la perdita della salute».
“Mi sembra che siano parole chiare per dare il senso di ciò che stiamo dicendo”.
Quanti sono gli infermieri che hanno contratto il coronavirus?
“Sono tanti, troppi: oltre 11mila almeno, in continuo aumento giorno dopo giorno. E ci sono anche troppi decessi. Finora a causa di COVID ne abbiamo contati 39, di cui quattro suicidi perché lo stress di un lavoro che supera ogni limite di sopportazione, lo stress di assistere a ciò che si ha davanti nei reparti COVID rimanendo spesso quasi impotenti – sia medici che infermieri e qualunque altro tipo di professionista – di fronte alla violenza del virus, la paura nel contagio, di fare del male agli altri, magari a persone a noi affettivamente legate, ma non solo, portano spesso a gesti estremi che senza COVID non avrebbero nemmeno sfiorato la mente di quei professionisti”.
La pandemia da coronavirus ha cambiato il modo di lavorare e interagire con i pazienti. Questo come influisce sulla vita di un infermiere?
“La pandemia da coronavirus ha ridotto in qualche modo il tempo e il modo di relazione con i pazienti che fa parte non tanto dei compiti, quanto dell’essere infermiere. Per noi – ed è scritto nel nostro Codice deontologico – il tempo di relazione è tempo di cura e per i pazienti si tratta di un rapporto fondamentale già in tempi normali, che diventa vitale nei reparti COVID dove l’infermiere è l’unica persona a poter restare h24 accanto al malato. COVID influisce su tutto questo sotto due aspetti fondamentali. Il primo è la forma di rapporto diretto col paziente: essergli vicino come suo unico contatto col mondo, ma coperti dalle protezioni individuali indispensabili per non essere a nostra volta fonte di contagio, avere tre paia di guanti di lattice sovrapposti che rendono tutto molto più innaturale, riducono il nostro approccio umano col paziente e la nostra professione ne risente, non dal punto di vista clinico, ma da quello umano che per noi è altrettanto importante. C’è poi l’spetto più evidente, quello della responsabilità di essere l’unico pezzo di mondo con cui il paziente può avere contatti. Non c’è famiglia, non ci sono congiunti o amici che possono stargli vicino e spesso è l’infermiere l’unico ponte che ha col mondo. E altrettanto spesso – ed è a cosa più terribile – è l’infermiere a dover accompagnare chi non ce l’ha fatta nell’ultimo momento della sua vita”.
In occasione del bicentenario della nascita di Florence Nightingale, fondatrice dell’infermieristica moderna, l’OMS ha dichiarato il 2020 anno internazionale dell’infermiere e dell’ostetrica. Come mai?
“L’anno dell’infermiere è stato proclamato a prescindere da COVID, quando ancora non si sapeva lontanamente cosa sarebbe accaduto. Il direttore generale dell’OMS, che ha proclamato il 2020, appunto, anno dell’infermiere, ha dichiarato in quel momento che:
«Gli infermieri sono la spina dorsale di ogni sistema sanitario: nel 2020 chiediamo a tutti i Paesi di investire in infermieri come parte del loro impegno per la salute per tutti».
“E la scelta del 2020 non è stata casuale visto che è anche l’anno in cui ricorre il bicentenario della nascita di Florence Nightingale, considerata la madre dell’infermieristica moderna e che ha dato già ai suoi tempi l’immagine dell’estremo valore della nostra professione”.
«Io uso il termine nursing come stimolo di miglioramento».
“Ha detto e noi l’abbiamo presa in parola facendo crescere la professione, migliorandone la struttura professionale e la qualità e ridefinendone le responsabilità a vantaggio dei pazienti e del sistema welfare che si rende garante di assistenza e orientamento alla salute per l’intera collettività nazionale. Il nostro fine è assistere i pazienti, individuarne le necessità ed essere vicini a loro in quei momenti, incidere nel processo organizzativo e decisionale del sistema e dare risposte mirate alle contingenze economiche e ai bisogni che emergono dall’attuale scenario demografico ed epidemiologico. Proprio come Florence Nightingale, fin dai suoi tempi, ha fatto e programmato”.
Nel corso di questi mesi, scanditi da ritmi frenetici soprattutto nelle corsie degli ospedali, gli infermieri sono stati sufficientemente tutelati?
“Anche questo è un fatto che ormai è sotto gli occhi di tutti. D’altra parte, il numero di professionisti positivi e dei deceduti parla da sé e aggiungerei, semmai, che oltre un terzo di questi ultimi è morto per assistere pazienti in strutture sul territorio (come le RSA) dove le carenze si sono fatte evidenti, sia dal punto di vista dei sistemi di protezione che dei tamponi per controllare l’eventuale condizione di contagio, ma solo nell’ultima parte della Fase 1 della pandemia. I rifornimenti di DPI stanno iniziando ad arrivare in queste ultime settimane. Anche con alcune difficoltà iniziali, legate alla tipologia dei dispositivi inviati, più adatti spesso alla popolazione che non agli operatori sanitari. Questo è un problema che, come per la normale rilevazione di casi e decessi, porta uno strascico di positivi che viene da più lontano: gli infermieri, anche se pochi rispetto alle necessità, non hanno mai smesso di essere presenti accanto ai cittadini e ai malati e le conseguenze sono anche queste”.
Come si può far crescere e migliorare questa professione?
“Ad esempio, mantenendo le promesse fatte durante la pandemia, quando ci hanno definiti eroi per quello che in realtà facciamo ogni giorno perché è la nostra professione, ma che solo in momenti come questo purtroppo diventa evidente. Appena l’emergenza sarà terminata si dovrà necessariamente rivedere la consistenza degli organici: prima di COVID al tavolo dei fabbisogni ogni anno chiediamo di riservare alle lauree infermieristica circa il 15-20% dei posti in più rispetto a quelli chiesti dalle Regioni (sempre al ribasso prima dell’attuale situazione) e a quelli stabiliti dal ministero dell’università. Ora dopo l’esperienza COVID appare chiara la richiesta, soprattutto per il territorio dove si sono visti purtroppo gli effetti della mancanza di professionisti in grado di assistere i cittadini, ad esempio gli anziani nelle RSA, dove la mortalità con COVD-19 è aumentata quasi del 50% rispetto alle rilevazioni dello stesso periodo dello scorso anno, con una concentrazione maggiore soprattutto al Nord e in particolare in Lombardia e in Emilia Romagna, dove i decessi legati a COVID-19 in queste strutture sono stati tra il 54 e il 57 per cento di quelli totali. Da rivedere per gli infermieri saranno sia le retribuzioni che l’iter formativo, prevedendo specializzazioni infermieristiche che anche in questo caso si sono dimostrate necessarie nell’emergenza dove la stessa Protezione Civile le ha chieste per la task force da destinare alle zone rosse. Specializzazioni per le quali oggi gli infermieri, che hanno oltre la laurea triennale quella quinquennale e i dottorati di ricerca, ricorrono a master anche riconosciuti, ma pure sempre master e non regolari corsi universitari”.
Secondo un rapporto dell’OMS, tra il 2013 e il 2018, il numero di infermieri nel mondo è aumentato di 4,7 milioni, ma in Italia ne servirebbero almeno 53mila. Pensa sia possibile?
“Lei riporta solo una parte di ciò che l’ultimo rapporto OMS pubblicato ad aprile ha evidenziato: tra il 2013 e il 2018 il numero di infermieri nel mondo è aumentato di 4,7 milioni, è vero. Ma questo lascia ancora una carenza globale – come sottolinea la stessa OMS – di 5,9 milioni di professionisti. In Italia ne mancano almeno 53mila è vero, soprattutto sul territorio, dove anche con COVID si stanno dimostrando le problematicità maggiori. E ne mancano perché circa 12.000 in meno sono legati al blocco del turn over per oltre dieci anni, del ricambio cioè degli organici dopo che i professionisti raggiungendo il limite di età vanno in pensione. Poi ne mancano altri per essere in linea con quanto l’Unione Europea ha sancito – e l’Italia ha ratificato. Per quanto riguarda i turni di lavoro e i relativi riposi: per poter applicare la direttiva ci vogliono almeno altri 21.000 infermieri in ospedale. E infine il territorio. Calcolando il numero di infermieri necessario ad assistere i pazienti fragili (cronici, non autosufficienti, anziani, ecc.) mancano almeno 32.000 professionisti. Ed ecco che il numero di 53mila – una goccia rispetto alla carenza denunciata dall’OMS di quasi 6 milioni – è facilmente spiegato”.
Dal punto di vista contrattuale, gli infermieri sono abbastanza tutelati?
“In parte ho risposto prima a questa domanda. Tuttavia, abbiamo proprio recentemente scritto una lettera al premier Conte, al ministro Speranza e al presidente delle Regioni Bonaccini per chiedere alcuni percorsi migliorativi del contratto, secondo il quale oggi un infermiere guadagna in media tra i 1.200 e i 1.600 euro mensili a fronte di ciò che è la sua professione e professionalità, ormai sotto gli occhi di tutti. Le nostre richieste sono soprattutto otto, tra cui un‘area contrattuale infermieristica che riconosca peculiarità, competenza e indispensabilità ormai evidenti di una categoria che rappresenta oltre il 41% delle forze del Servizio sanitario nazionale e oltre il 61% degli organici delle professioni sanitarie. Poi una indennità infermieristica che, al pari di quella già riconosciuta per altre professioni sanitarie della dirigenza, sia parte del trattamento economico fondamentale, non ‘una tantum’ e riconosca e valorizzi sul piano economico le profonde differenze rispetto alle altre professioni, sempre esistite, ma rese evidenti proprio da COVID-19. Importante anche avere garanzie sull’adeguamento dei fondi contrattuali e possibilità di un loro utilizzo per un’indennità specifica e dignitosa per tutti i professionisti che assistono pazienti con un rischio infettivo e garanzie di un adeguamento della normativa sul riconoscimento della malattia professionale in caso di infezione con o senza esiti temporanei o permanenti. Ovviamente l’immediato adeguamento delle dotazioni organiche con l’aggiornamento altrettanto immediato della programmazione degli accessi universitari: gli infermieri non bastano, ne mancano 53mila, ma gli Atenei puntano ogni anno al ribasso. Poi l’aggiornamento della normativa sull’accesso alla direzione delle aziende di servizi alla persona, la possibilità per gli infermieri pubblici, superando il vincolo di esclusività, di prestare attività professionale a favore di strutture sociosanitarie (RSA, case di riposo, strutture residenziali, riabilitative…) e naturalmente tutto questo deve valere in ugual modo nel pubblico come nel privato”.
Cosa dovrebbe fare in più lo Stato per questa categoria di lavoratori?
“Semplicemente considerare realmente e senza attese le nostre richieste che non derivano dalla necessità di una ‘crescita’ contrattuale, ma dal bisogno di una riprogrammazione efficace dei servivi, specie di quelli alla persona e sul territorio. E non solo pro-infermieri, ma soprattutto per i pazienti”.
Presidente, vuole approfittare di questo spazio e mandare un appello alle istituzioni?
«…lo dico a nome del Governo, ma sono sicuro che tutti i membri del Parlamento possano ritrovarsi in quest’impegno, non ci dimenticheremo di voi e di queste giornate così rischiose e stressanti».
“Le rispondo con le parole dette da Giuseppe Conte sugli infermieri durante l’informativa in aula alla Camera del 25 marzo. Diciamo che l’appello è per mantenere le promesse fatte. Pendendo atto che, superata l’emergenza coronavirus, se le promesse resteranno lettera morta, ci sarà una nuova grande emergenza: la gestione di tutte le prestazioni sanitarie annullate/rinviate in questi mesi (esami, visite, interventi) e la presa in carico delle cronicità, che in questo periodo stanno pagando un costo altissimo derivante dall’impreparazione del nostro sistema rispetto all’emergenza. Va detto al Governo che sarà necessario fare meglio e molto di più rispetto a quanto si è fatto con i recenti decreti emergenziali, dove si finanzia prevalentemente il lavoro straordinario e quello autonomo e occasionale. Ovviamente la Federazione è pronta a dare tutto il supporto necessario alle istituzioni per realizzare queste richieste nel modo migliore, più equo, ma anche più rapido possibile. Per ridisegnare un servizio sanitario, sia pubblico che privato, efficiente e preparato più di quanto il nostro si sia già dimostrato. I modi ci sono, basta volerli prendere in considerazione davvero. E che risultati daranno. Oggi lo vedono tutti, purtroppo, in un’emergenza dove la volontarietà degli infermieri e la loro professionalità hanno davvero fatto la differenza. Oggi ci definiscono eroi. In realtà siamo professionisti come gli altri che credono nel proprio lavoro. Perciò queste richieste saranno la nostra medaglia”.
Manuela Petrini (Interris.it)