Il 29 maggio di ogni anno si celebra la Giornata mondiale dei Peacekeepers, meglio noti come forze di pace delle Nazioni Unite o Caschi blu, nata con la risoluzione 57/129 dell’11 dicembre 2002 per iniziativa dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
La scelta di questo giorno non è casuale: infatti, il 29 maggio 1948, il Consiglio Nazionale di Sicurezza diede inizio alla prima operazione di pace delle Nazioni Unite.
Il peacekeeping dell’ONU
Le attività svolte dai Peacekeeper riguardano sia la protezione dei civili, sia la promozione e la protezione dei diritti umani. Il termine peacekeeping si riferisce a tutte le attività e le operazioni atte al mantenimento della pace. Queste sono quasi sempre promosse e divulgate sotto il controllo delle Nazioni Unite.
Il peacekeeping ONU è un modo per cercare di risolvere i conflitti tra gli Stati utilizzando il personale militare, ma disarmato o con un armamento leggero.
Una via in più per la pace
Seppur impegnati in missioni di pace, durante il quale danno prova del loro coraggio, i Caschi blu sono dei militari, anche se dotati di un armamento leggero.
Esiste una possibilità in più di promuovere la pace, come si prefigge di fare l’Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Per capire come questo organismo cerchi di raggiungere i suoi obiettivi, quali sono le caratteristiche del suo intervento, Interris.it ha intervistato Giulia Zurlini Panza, operatrice di pace in zone di conflitto armato con Operazione Colomba, attualmente impegnata nell’ambito della comunicazione e raccolta fondi.
Video di Operazione Colo
Giulia, ci puoi spiegare cos’è l’Operazione Colomba?
“Operazione Colomba è il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione ‘Comunità Papa Giovanni XXIII’. È nata nel 1992, quando alcuni volontari e obiettori di coscienza hanno iniziato a vivere con le vittime della guerra in ex-Jugoslavia. La sfida che si poneva di fronte a queste persone consisteva nel cercare di dare risposta al sentimento di impotenza che si era generato di fronte a una grande catastrofe come la guerra esplosa in ex-Jugoslavia. Lo scoppio delle ostilità dall’altra parte dell’Adriatico spinse persone, che avevano portato avanti per anni, in Italia, la lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e del servizio civile e che erano cresciute nutrendo il loro spirito e la loro mente attraverso una cultura basata sui principi della nonviolenza, a non rimanere né fermi né in silenzio di fronte a quanto stava accadendo.
Civili italiani entrarono volontariamente e disinteressatamente in una zona di guerra per condividere la loro vita con quella dei civili e dei profughi del conflitto armato e per non lasciarli soli di fronte alla violenza più inaudita. Una delle prime cose che questi volontari scoprirono fu che la presenza di civili internazionali fungeva da deterrente alle ingiustizie, abbassando così gli episodi di violenza e il livello di tensione. In questo modo, i volontari iniziarono a sostenere le vittime del conflitto nelle loro necessità quotidiane, monitorando le violazioni dei Diritti Umani e provando a ricostruire i contatti tra coloro che erano stati divisi dall’odio interetnico.
Da questi primi passi è nata l’esperienza di Operazione Colomba che, in quanto Corpo Civile di Pace, opera in zone di conflitto come alternativa all’intervento armato. In questo caso, a entrare in azione sono i civili che, attraverso la nonviolenza e le sue tecniche, proteggono le vittime dei conflitti armati e le sostengono nella tutela dei loro diritti. In oltre 25 anni di intervento, Operazione Colomba è riuscita a coinvolgere oltre 2.000 volontari e più di 50.000 persone hanno beneficiato del suo operato in molti Paesi: Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Albania, Sierra Leone, Timor Est, Congo, Chiapas (Messico), Cecenia (Russia), Palestina-Israele, Uganda, Colombia, Libano (al fianco dei profughi siriani), etc.”.
Video di Operazione Colo
Quali sono le principali caratteristiche del suo intervento?
“È un’esperienza aperta a tutti coloro che vogliono sperimentare la nonviolenza in zone di conflitto e che credono nella capacità di cambiamento dell’uomo. Il suo intervento si basa su 4 ‘pilastri’.
Uno: la condivisione diretta, la quale implica l’idea che la nostra vita valga quanto quella degli altri, tanto da valere la pena di rischiarla per salvare quella altrui. Questo comporta che i volontari vivano nelle stesse condizioni delle vittime dei conflitti armati, condividendone la precarietà e le situazioni d’emergenza. Tale approccio consente di intessere profonde relazioni di fiducia con le parti coinvolte nel conflitto.
Due: la nonviolenza, secondo il principio per cui sia possibile costruire una pace sostenibile solo attraverso mezzi pacifici. La nonviolenza è lo strumento con cui le vittime dei conflitti hanno la possibilità di porre fine al circolo vizioso della violenza: adottandola, rinunciano alla spirale della vendetta, evitando così di trasformarsi a loro volta in carnefici. I volontari utilizzano la nonviolenza per risvegliare la coscienza degli attori armati, sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale su determinate situazioni e abbassare il livello di tensione tra le parti.
Tre: l’equivicinanza prevede la condivisione diretta con tutte le parti coinvolte nel conflitto. In questo modo, i volontari riescono a guadagnare la credibilità necessaria a promuovere il dialogo e un futuro riavvicinamento delle parti. Equivicinanza significa anche monitorare e denunciare tutte le violazioni dei Diritti Umani registrate, a prescindere dalla parte che le ha commesse.
Quattro: la partecipazione popolare, poiché Operazione Colomba è un’esperienza aperta a tutti, indipendentemente dalle proprie credenze e convinzioni. Le uniche richieste sono: l’adesione a un cammino sulla nonviolenza anche nella vita di gruppo, la maggiore età e la partecipazione a un corso di formazione specifico”.
Voi svolgete il lavoro di Advocacy, di cosa si tratta?
“Consiste nella denuncia delle violazioni dei Diritti Umani e nella promozione di soluzioni alternative al conflitto, a livello politico e istituzionale. Si tratta di incidere sulle decisioni politiche, a livello internazionale e nazionale, con particolare riferimento ai Paesi in cui Operazione Colomba è presente.
Operazione Colomba svolge il lavoro di advocacy fungendo da ponte tra le vittime dei conflitti armati e i rappresentanti istituzionali, dando voce alle istanze delle prime di fronte alle autorità e seguendo così una vera e propria strategia ‘bottom-up’.
Questa attività viene perseguita attraverso:
- la diffusione di report sulle violazioni dei Diritti Umani e di proposte di risoluzione delle situazioni conflittuali in cui Operazione Colomba interviene;
- la realizzazione di campagne, tavole rotonde, incontri e manifestazioni di sensibilizzazione su determinate questioni;
- l’organizzazione di incontri tra attivisti e difensori dei Diritti Umani; l’adesione a network di associazioni che si occupano di queste tematiche;
- la partecipazione ai meccanismi istituzionali delle organizzazioni internazionali che si occupano della tutela dei Diritti Umani e civili (es. Universal Periodic Review all’interno delle Nazioni Unite).
Tutto ciò permette di portare all’attenzione delle istituzioni determinate situazioni critiche e di esercitare su di esse una pressione affinché vengano adottate misure efficaci a risolvere le questioni sottoposte”.
Cosa si aspetta un volontario che parte per le zone di guerra?
“Non so dire precisamente che cosa si aspetti un volontario che parte per le zone di guerra perché ognuno di noi è diverso. Però posso dire che cosa mi aspettavo io.
In realtà, credo che mi aspettassi di trovare molta violenza e distruzione, ma anche di trovare delle risposte a queste situazioni così difficili. Sentivo che mi guidava la domanda: esiste un bene più forte del male della guerra? E, attraverso l’esperienza con Operazione Colomba, credo proprio di averlo trovato questo bene più forte, così come in mezzo a tanta disperazione ho trovato ciò che non mi aspettavo: moltissima speranza, solidarietà e vita”.
Video di ©12Porte
Tu sei una volontaria di Operazione Colomba, ci puoi raccontare la tua esperienza?
“Io sono nell’Operazione Colomba dal 2006. Sono partita per la mia prima esperienza come volontaria di breve periodo per il Kossovo. All’epoca Operazione Colomba realizzava scorte civili per tutelare la libertà di movimento delle persone di minoranza serba che si spostavano dai loro villaggi alle città limitrofe – praticamente tutte a maggioranza albanese – allo scopo di effettuare le loro commissioni quotidiane.
Attraverso auto private, i volontari accompagnavano questi civili ogni giorno a fare la spesa, in ospedale o a trovare qualcuno… Questo genere di accompagnamento li faceva sentire maggiormente al sicuro rispetto alla scorta militare, facilmente identificabile visti i mezzi di cui si serve. Infatti, con i nostri mezzi le persone che accompagnavamo erano viste come normali civili su un auto, mentre sui mezzi militari diventava chiara la loro appartenenza etnica per chi li vedeva arrivare in città e questo li poteva esporre a eventuali soprusi.
Da questo punto di vista, Operazione Colomba aveva un’altra freccia al suo arco: la profonda conoscenza e la relazione di fiducia sviluppata con entrambe le comunità che si sono combattute durante la guerra. I suoi volontari sono stati al fianco della comunità albanese e di quella serba nei momenti più difficili del conflitto. Questo ha permesso loro di conoscere bene la storia e le condizioni in cui le parti hanno vissuto, nonché di imparare la lingua e il background di entrambi i gruppi.
E proprio grazie a questi elementi, i volontari di lungo periodo, che da anni erano presenti sul campo, avevano avviato un processo di dialogo e di riavvicinamento tra ragazzi appartenenti alle diverse comunità etniche vittime del conflitto. Io sono capitata in progetto nel momento in cui questi giovani – uomini e donne albanesi, serbi, bosgnacchi, balcano-egiziani, etc. – si stavano reciprocamente raccontando ciò che avevano vissuto durante la guerra. Quindi, un momento davvero importante.
E ho assistito a una sorta di ‘miracolo’: il racconto delle proprie sofferenze aumentava il livello di empatia degli uni nei confronti degli altri. I partecipanti al percorso si mettevano nei panni di colui o di colei che fino a quel momento avevano considerato ‘il nemico’. Era la riumanizzazione del ‘nemico’ che si spogliava di questo epiteto per diventare una persona con una sua storia, un suo passato, una sua famiglia e soprattutto una sua dignità.
I volontari che sono riusciti a creare questa strada alternativa mi hanno raccontato di quanto sia stata lunga e faticosa la sua preparazione e di come il fatto di stare al fianco di queste persone negli anni precedenti, con le caratteristiche tipiche di Operazione Colomba, ne abbia permesso la realizzazione.
Era un vero e proprio processo di riconciliazione in cui questi giovani si sono liberati dal peso dell’odio interetnico, chiedendosi scusa reciprocamente per ciò che la propria comunità di appartenenza aveva commesso nei confronti dell’altra e iniziando a mettere in dubbio quello che la propaganda aveva loro inculcato per spingerli a combattersi.
Questa esperienza e l’esempio di questi giovani hanno avuto un profondo impatto sulla mia vita, tanto da spingermi a mettere mano ai miei conflitti interpersonali per poi ripartire come volontaria di lungo periodo. A questa scelta, ho accompagnato un mio percorso formativo incentrato su studi universitari – e non solo – inerenti proprio ai temi della gestione nonviolenta dei conflitti.
Dal 2012 ho preso parte al progetto di Operazione Colomba in Albania che, fino a poco fa, si occupava di realizzare, in particolare, percorsi di rielaborazione del conflitto e di mediazione tra famiglie coinvolte nel fenomeno della ‘vendetta di sangue’, scorte civili per garantire la libertà di movimento a chi è coinvolto nelle faide e attività di sensibilizzazione e advocacy per diffondere una cultura basata sul rispetto dei Diritti Umani.
Sono stata co-referente del progetto sul campo per circa 3 anni e poi ne sono diventata coordinatrice dall’Italia. Da pochi mesi seguo le attività riguardanti la raccolta fondi”.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
“Posso affermare che questa esperienza è diventata una scelta di vita. La scoperta della nonviolenza mi ha permesso di dare risposta alla mia esigenza di senso esistenziale, un bisogno che ognuno di noi ha e che merita di essere ascoltato o incanalato. La modalità con cui Operazione Colomba mette in atto la nonviolenza attiva è diventata per me una scuola di vita”.
Che differenza c’è tra cooperante, peacekeeper e voi volontari dell’operazione Colomba?
“Direi, innanzitutto, che Operazione Colomba si occupa di intervento (o protezione) civile disarmata in zone di conflitto armato e questo già fa capire che può essere distinta da altre attività per ciò di cui si occupa, per come se ne occupa e rispetto ai contesti in cui opera. I volontari di Operazione Colomba realizzano interventi nonviolenti di peacekeeping, peacemaking e peacebuilding civile in zone di conflitto armato e sostengono le comunità che, in tali contesti, hanno scelto la resistenza nonviolenta.
Realizzare azioni nonviolente di peacekeeping civile implica:
- il monitoraggio delle violazioni dei Diritti Umani per effettuare segnalazioni e denunce alle autorità competenti;
- gli accompagnamenti non armati in cui i volontari scortano nei loro spostamenti difensori dei Diritti Umani e civili che rischiano la vita;
- l’interposizione nonviolenta che implica l’atto di mettersi fisicamente in mezzo per proteggere le persone vittime di minacce o di violenza;
- il supporto alla realizzazione di iniziative nonviolente e l’uso di tecniche nonviolente (quali marce, sit-in, manifestazioni, petizioni, campagne di sensibilizzazione, tavole rotonde, scioperi, disobbedienza civile, etc.);
- il networking con associazioni che lavorano per la tutela dei Diritti Umani; la produzione e la distribuzione di report che descrivono il contesto in cui le violazioni dei Diritti Umani vengono commesse e le buone prassi che servono ad arginarle.
Mentre le azioni nonviolente di peacemaking civile implicano l’uso della mediazione come tecnica atta ad aiutare le parti a raggiungere un accordo che soddisfi i loro bisogni. E le azioni nonviolente di peacebuilding civile prevedono percorsi di dialogo, di riconciliazione e di giustizia riparativa attraverso momenti di incontro e confronto tra le parti in luoghi neutrali e sicuri.
I volontari di Operazione Colomba si occupano, quindi, di queste specifiche attività che si distinguono da altre attività previste dalla cooperazione, come per esempio la costruzione di determinate strutture a supporto delle comunità locali oppure il rifornimento di determinati materiali o ancora programmi di sviluppo di queste stesse realtà.
Poi la cooperazione, a differenza di Operazione Colomba, interviene non solo in zone di conflitto armato. Inoltre, i volontari di Operazione Colomba che portano avanti i progetti sul campo, lo fanno senza percepire un compenso economico. L’unica cosa che percepiscono i volontari di lungo periodo è un piccolo rimborso spese.
Attraverso la sua esperienza diretta, Operazione Colomba ha, infatti, potuto constatare come la possibilità di costruire relazioni di fiducia e di credibilità con le popolazioni locali sia profondamente legata al modo disinteressato con cui i volontari vivono al loro fianco, allo stile sobrio delle sue presenze e alla modalità rispettosa del contesto con cui le attività vengono portate avanti. Infine, come si evince chiaramente, i volontari operano in modo civile e nonviolento, quindi sono disarmati”.
Video di Operazione Colo
Esiste per voi il rischio di rapimento a scopo estorsivo?
“Esistono diversi rischi, in generale, per gli operatori che lavorano nei contesti di conflitto in cui operiamo anche noi. L’importante è capire come si risponde a questi rischi e quali azioni vengono attuate per prevenirli, ridurli e tutelarsi.
Sicuramente Operazione Colomba ha alle spalle oltre 25 anni di esperienza sul campo che le hanno permesso di darsi delle linee guida e delle specifiche caratteristiche, come quelle sopra elencate, le quali tengono proprio conto di questi aspetti. Inoltre, proprio attraverso la vita sul campo, sono state tracciate determinate norme di sicurezza che devono essere rispettate, così come sono state stabilite reti di relazioni con autorità e istituzioni locali. Da ultimo, ma non meno importante, non bisogna mai dimenticare che sono le persone accompagnate e protette dai volontari di Operazione Colomba a essere oggetto di minacce e di violazioni dei Diritti Umani.
Se il target di questi soprusi diventassero i volontari, allora l’intervento civile disarmato perderebbe di senso e, anzi, andrebbe ulteriormente a pesare sulle condizioni di rischio che già vivono le popolazioni locali coinvolte nel conflitto. Per questo, Operazione Colomba cerca il più possibile di valutare la reale utilità del suo intervento a seconda delle zone e delle situazioni in cui questo potrebbe risultare opportuno”.
Video di Operazione Colo
Cosa si può fare per aiutare l’Operazione Colomba?
“Le principali modalità con cui aiutare Operazione Colomba sono due: o partecipare a uno dei suoi corsi di formazione per poi partire per i suoi progetti oppure sostenere i suoi progetti attraverso una donazione o l’adesione a una delle sue campagne di raccolta fondi.
Molte persone desiderano, infatti, provare a testare questo tipo intervento sul campo e per questo partecipano ai nostri corsi per poi partire. Altre persone che credono in questo tipo di azione, ma non se la sentono o non possono partire, decidono di contribuire alla nostra raccolta fondi per aiutare il proseguimento delle nostre attività sul campo.
Per approfondire, basta andare sul sito di Operazione Colomba (http://www.operazionecolomba.
Pensi sia possibile costruire la pace in tutto il mondo?
“Credo che l’operato di Operazione Colomba dimostri come nulla sia impossibile a questo mondo, quindi sì, ci ho creduto e ora continuo a crederci”.
Manuela Petrini (Interris.it)