“Chentu concas, una berritta”.
Ovvero, un sogno: superare la tradizionale propensione dei sardi a entrare in conflitto l’un l’altro, per lavorare insieme per uscire dalle secche attuali di uno sviluppo, economico e sociale, bloccato. La forza paralizzante dell’invidia, fattore di regolazione sociale nel vecchio mondo agropastorale, oggi è diventato un freno all’innovazione e alla crescita economica.
Nella Sardegna tradizionale, la risorsa economica fondamentale, come il pascolo, non poteva crescere. In un contesto del genere, ad esempio, se un pastore decideva di farsi un gregge con molte più pecore degli altri allevatori, finiva, per evidenti motivi, con il danneggiare tutti.
L’invidia e i comportamenti collegati, compresi quelli violenti, servivano a richiamarlo all’ordine. Rancore e astio, insomma, erano funzionali alla coesione sociale. I presupposti che l’antica comunità di villaggio fosse un luogo di pace e armonia sociale erano falsi. Esistevano, invece, rapporti di potere e di sfruttamento altrettanto duri e cogenti di quelli che segnano le moderne società industriali.
Inoltre, la dimensione della comunità ha un connotato estremamente negativo, che si ripercuote in maniera evidente nei codici barbaricini: la doppia morale. Le regole che valgono all’interno non valgono all’esterno. Se le pecore le rubi dentro la comunità, sei un criminale; se le rubi fuori sei un eroe. Un codice primitivo, dunque, isolato in una dimensione senza prospettive.
Ovvio che nell’Isola si sia verificata una tensione molto forte sul fronte dei valori. Tanto più che in Sardegna, in misura maggiore rispetto alle regioni del settentrione, è mancata la contrapposizione di un modello industriale forte, socializzante.
Nell’Isola ci sono 377 Comuni che svolgono, ancora oggi, una funzione sociale molto diversa dal ruolo che le amministrazioni locali giocano in altre regioni. Spesso le loro attività hanno una diretta rilevanza economica. Nonostante ciò, risulta sempre più evidente che tutta una serie di processi di sviluppo difficilmente possono essere attivati per iniziativa di un solo Comune. Vale anche per la semplice gestione corrente.
Bisogna quindi superare le antiche rivalità o le storiche diffidenze se si vuole accrescere le risorse e creare processi di valorizzazione del territorio. Oggi le nuove generazioni un pochino stanno cambiando le cose. Almeno coloro che rimangono sull’isola, e non preparano le valigie per spostarsi altrove, hanno idee nuove e sono molto meno condizionati dai valori dei vecchi schemi.
Ma molti giovani sardi se ne vanno e da tutti questi posti la vita, giorno per giorno, sembra defluire verso altri luoghi: chi può fugge dai paesini solitari, sempre meno popolati, sempre più silenziosi, non più soltanto verso i centri della costa, ma anche verso luoghi molto più lontani, di là del Tirreno, come accadde una cinquantina d’anni fa, al tempo della grande emigrazione, quando a partire in breve volgere d’anni furono quasi 200mila sardi.
Oggi è diverso da allora, non soltanto perché il flusso che allontana dalla Sardegna una parte dei suoi abitanti non è così massiccio e rapido come fu allora, ma perché a partire non sono più contadini poveri che lasciano la terra a causa del disfacimento dell’economia agricola tradizionale, né minatori espulsi dalle miniere ormai morenti, ma, per la parte maggiore, giovani che hanno già, o si avviano ad avere, un titolo di studio elevato o una precisa qualifica professionale.
Quello attuale è un fenomeno meno vistoso, di consistenza minore sotto il profilo puramente quantitativo, ma è un processo che impoverisce la Sardegna più di quanto abbia fatto la grande emigrazione dei decenni passati poiché le sottrae una parte rilevante del patrimonio di risorse intellettuali e professionali dal quale può attendersi un futuro meno stento e gramo del presente.
L’emigrazione d’oggi non è più, come fu un tempo, una vicenda corale che abbia manifestazioni evidenti (la partenza di folti gruppi di emigranti, le folle di aspiranti all’espatrio davanti ai centri di reclutamento e di smistamento) e possa essere percepita globalmente; è, invece, la somma di un gran numero di vicende individuali che si svolgono tacitamente.
Il giovane che se ne va a completare i suoi studi in una città del Continente, dalla quale poi difficilmente tornerà al suo paese, o quello che va a mettere a frutto le sue capacità professionali in regioni più floride e fortunate della Sardegna costituiscono, evidentemente, casi isolati: e tuttavia esprimono una tendenza che si ha motivo di ritenere diffusa, benché non sia facile.
Adesso, nei piccoli paesi dell’entroterra isolano, rimangono solo le immagini fuggevoli di gruppi di vecchi riuniti al sole, a masticare pochi brandelli di conversazione nei quali spesso affiorano storie familiari; piccole storie, certo, che però acquistano un senso più ampio, e ben poco confortante, se si tengono presenti i dati numerici raccolti dai demografi.
A chi si ferma a conversare con loro, seduti nelle panchine delle piazze, i vecchi dei paesi raccontano, incerti fra l’orgoglio e il rimpianto, dei familiari lontani.
“Ma prima o poi torneranno?”
Torneranno per fare qualcosa, è la risposta data semplicemente con gli occhi…
Ma l’impoverimento demografico non colpisce soltanto i paesi piccoli, che, da tempo, appaiono destinati a un progressivo spopolamento. Se la realtà drammatica è questa, non pare sia fuori d’ogni ragionevolezza chiedersi, e con non poca preoccupazione, verso quale futuro sia avviata questa parte della Sardegna. Così i giovani partono, alla ricerca di speranze lavorative e senza, fra l’altro, troppa nostalgia di una Sardegna ingrata.
Massimiliano Perlato