A proposito delle “Cronache di una pandemia” raccontate da Francesca Mulas.
In attesa di scoprire se e come il coronavirus avrà trasformato il nostro mondo, fragile eppure infrangibile, già sappiamo di non sapere quasi nulla della pandemia.
Non sappiamo se ci sarà una seconda fase, se gli asintomatici possano tramettere il virus. Non sappiamo se la presenza di anticorpi garantisca l’immunità, né quale sia la sia la distanza di sicurezza, tantomeno se i guanti siano utili o fattore di rischio. Non sappiamo se i farmaci di cui si parla siano efficaci, né siamo certi sulla causa delle morti sospette registrate nel dicembre del 2019.
Non sappiamo quando sarà davvero disponibile un vaccino, né perché la mortalità delle donne sia inferiore a quella degli uomini. Tantomeno sappiamo perché il tasso di mortalità sia elevato in Italia e assai più basso in Germania e non è ancora ben chiaro cosa sia davvero accaduto in Cina.
Insomma, non sappiamo quasi niente. Conosciamo il numero dei morti, è vero, seppure approssimato per difetto, e una certa predilezione del virus per le persone anziane.
Tutto ciò ha prodotto un singolare effetto, quello di esaltare la soggettività di voglia cimentarsi nella valutazione di quanto è accaduto e continua ad accadere. Sempre più spesso, di conseguenza, ogni ragionamento sulla pandemia viene introdotto dalla formula magica:
“secondo me….”.
Si tratta di un diritto, quello della libertà di espressione, che trova fondamento nella Costituzione. Una libertà suscettibile di limitazioni, come tutte, ma stabilire quali esse siano non è facile. Così, in attesa che un sovranismo in salsa ungherese riesca a imbavagliare le opinioni, la libertà di critica è salva.
Non sono tutte rose, per dirla tutta, perché alcuni dettagli della pandemia continuano a essere trattati, anche da noi, alla stregua del segreto di Stato. L’informazione sulla diffusione del virus è affidata a scarni bollettini ufficiali, del tutto privi di dettagli.
L’appuntamento delle sei forniva numeri in formato non facilmente decifrabile; gli esperti, dopo aver frettolosamente impilato il numero dei morti, ci tranquillizzavano spiegando che a morire erano solo le persone anziane con patologie pregresse, poi si esaltavano nel fornirci dettagli di scarso interesse, come il numero delle tende piantate nel peristilio dei pronto soccorso, i reparti realizzati in pochi giorni nelle fiere, il numero delle ambulanze a disposizione e quello dei pazienti traferiti da una regione all’altra.
Tale overdose di informazioni, come spesso capita, ha generato, in realtà, un deficit di informazione e, quindi, una certa confusione. Il genio italico ha fatto il resto, ciascuno ha potuto dire la sua, seppur con cautela, mettendo le mani avanti:
“Secondo me…”.
Così in qualche momento, proprio durante la pandemia, il numero degli esperti – che include dilettanti, amatori, naif e complottisti – ha superato il numero dei contagiati.
Alle chat non ho mai dato molto peso. Non frequento né Instagram né Twitter. L’iscrizione a Facebook l’ho cancellata da anni. Credetemi, non è stato facile: dopo essere stato re-iscritto, a mia insaputa, son riuscito a uscirne di nuovo; attualmente resisto alle lusinghe e alle pressioni della compagnia, che mi vorrebbe di nuovo tra i suoi adepti, e prendo atto, con una certa soddisfazione, di non avvertire alcun sintomo di astinenza.
Il libro: “Cronache di una pandemia”
Un libro è diverso. La carta stampata non ha più consistenza di quanto vien custodito nelle nuvole, ma fingo di credere che così non sia. A richiamare la mia attenzione è stato il titolo: Cronache di una pandemia, edito da Domus de Janas, e poi l’autrice, per il poco che la conosco, istintivamente me cae bien, mi cade bene, come dicono in Spagna. Il libraio di Pula, che nell’occasione ho avuto il piacere di conoscere – mi ha ricordato i librai d’altri tempi – l’ha fatto arrivare in 24 ore.
La mia curiosità era quella di conoscere l’opinione dell’autrice. Ero convinto che avrebbe risposto alla domanda che ogni lettore, al cospetto di quel titolo, si pone implicitamente:
Secondo te?
Ed invece, nessuna risposta. Ho scoperto che l’autrice, per niente in sintonia con le mie aspettative, non si è lasciata trascinare dalla tentazione di ostentare le proprie opinioni, si è limitata a trascrivere la cronaca quotidiana di 55 giorni di coprifuoco, attingendo alle fonti, quasi esclusivamente giornalistiche, puntualmente elencate nella coda del volume.
Al principio, lo confesso, mi son sentito persino un po’ defraudato. Ero preparato a soppesare i suoi giudizi, a misurare l’accordo o il disaccordo. Francesca Mulas, invece, come osserva Celestino Tabasso nella sua – davvero pregevole – introduzione:
“non si fa un selfie mentre cucina o si trucca con la pandemia sullo sfondo. Lascia che siano i fatti e i fatterelli a parlare…”.
Un po’ defraudato perché convinto, e non a torto, di conoscerli, quei fatti. Soprattutto nei primi giorni, prima di rendermi conto dei possibili effetti collaterali di un eccesso di informazione, sono stato attento lettore dei comunicati ufficiali e delle notizie, di quelle alla mia portata, relative alla pandemia. Poi, scorrendo quei fatti e fatterelli, ho percepito come il nostro vissuto, anche quello recente, una volta che smette di essere attualità per trasformarsi in storia, acquista diversa consistenza.
Scopriamo che alcuni fatti si dimenticano rapidamente, che in altri stentiamo a riconoscerci, che ad altri non avevamo prestato la dovuta attenzione. I numeri che appena qualche settimana fa ci sembravano normali, ora ci impressionano. Davvero abbiamo vissuto il dramma che Francesca, e con lei altri mille, seguendo il consiglio di Celestino Tabasso, hanno raccontato giorno per giorno nel proprio diario?
Ogni diario è differente.
Quando l’autore propone una propria interpretazione, è facile, per il lettore, trovarsi a misurare il proprio accordo o disaccordo con la tesi esposta. Ma se l’autore si limita a fornire una lista di “fatti e fatterelli” di cui tutti, più o meno, siamo a conoscenza, il lettore è costretto a rivivere, come in un replay, la propria recente esperienza di confinato, magari a rimettere in discussione le proprie convinzioni, a riportare alla luce pensieri che inconsciamente aveva rimosso, ad illuminare dettagli rimasti nell’ombra.
Un libro del genere richiede un approccio alla lettura del tutto differente da quanto previsto. Un approccio meno semplicistico, sicuramente più difficile, perché non consente al lettore di abbandonarsi alla pigra contemplazione; lo costringe ad un ruolo attivo, gli impone di scegliere una chiave di lettura, quella che più gli si confaccia, per poter decifrare i significati non evidenti.
In più, scorrendo quelle pagine, mimetizzato tra le notizie e le notiziole, mi è capitato di incontrare un vecchio amico, Giorgio, scomparso senza onorare l’appuntamento che aveva preso, per un martedì che non arriverà mai, all’ingresso dell’orto botanico. Francesca Mulas, dedicandogli il suo diario, si ispira esplicitamente all’insegnamento di Giorgio Pisano, che nell’arte di porgere la notizia era, e rimane, un maestro.
I fatti e i fatterelli non sono neutrali.
Lasciar parlare i fatti non significa rinunciare alla testimonianza dei propri valori. Il libro di Francesca Mulas è costruito, quasi esclusivamente, dalla cronaca di avvenimenti appena trascorsi. Ma l’autrice, spaziando da quelli di portata mondiale sino ai più piccoli fatterelli del vicinato, ha scelto con cura gli episodi, cosicché il lettore può scegliere, dall’insieme, quelli ritenuti più significanti.
All’autrice non è sfuggito, tra l’altro, che nei primi giorni di confino l’Ordine dei giornalisti della Sardegna ha bollato la direttiva con cui l’assessore regionale alla sanità intendeva imporre il silenzio stampa e creare una fonte unica di informazione. Né che la Giunta regionale, in piena emergenza, ha trovato il tempo per approvare una delibera che dava il via alla costruzione di un nuovo albergo sulle coste di Castiadas o che le esercitazioni miliari son proseguite anche in tempo di coronavirus.
Non le è sfuggito neppure che, in piena pandemia, ventimila fenicotteri rosa, con lo sguardo rivolto al futuro, si siano dedicati alla costruzione dei loro nidi o che il coronavirus non abbia fermato il viaggio dei migranti e 149 persone, a bordo della Alan Kurdi, abbiano trascorso la quarantena in alto mare.
Eccole le notizie, solo notizie, appena arricchite, di quando in quando, da qualche lapidaria emozione:
“Ma la luna, ieri notte, l’avete vista?”
Eppure, in un’occasione, una sola, l’autrice improvvisamente trasgredisce la regola che, sino a quel momento, sembrava aver rispettato. Il 25 aprile, quarantasettesimo giorno del confinamento, nel diario non compare nessun fatto o fatterello riferito alla pandemia, proprio nessuno, neppure la semplice indicazione del numero dei contagiati o dei morti.
Francesca Mulas, in luogo di sintetizzare le principali notizie del giorno, si concede una licenza, si limita ad esternare ciò che le ricorda la data del 25 aprile, Festa della liberazione dal nazifascismo, elencando, in poche lapidarie frasi, tutto ciò che, di quell’avvenimento, non vuol dimenticare. Avverte l’esigenza di gridare ai quattro venti che:
“Se oggi posso pensare e scrivere, lavorare e muovermi, informarmi e istruirmi, è grazie ai nostri bisnonni e nonni resistenti”.
In conclusione: a dispetto dell’apparente semplicità del racconto, scansito da un ritmo rigidamente cronologico, non si tratta di un libro di facile lettura. Non lo è, principalmente, perché la collaborazione attiva del lettore è imprescindibile; non sarà facile, in mancanza, cogliere il “secondo me” dell’autrice.
E poi, perché per leggere tra le righe occorre una buona vista.
Come il Fabrizio del Marcondirondero si chiede chi ci salverà dalla guerra, Francesca Mulas si chiede chi ci salverà dal coronavirus. Le ipotesi che a salvarci possano essere la scoperta del vaccino, o il caldo dell’estate, o la sconfitta dei complottisti, non le prende neppure in considerazione. Sarà, piuttosto la bellezza, sarà il buon cibo, saranno la solidarietà e l’arte, sarà la musica, ecco cosa ci salverà.
Secondo lei, naturalmente.
Gianni Loy