Si è affrontato un tema complesso – “Dalla precarietà all’inclusione” – il giorno 25 giugno 2020 nel corso di una Digital Conference promossa dal centro di ricerca DITES (Digital Technologies, Education & Society) della Link Campus University, l’Associazione Italiana Digital Revolution (AIDR) e l’Associazione COGNITIO, con l’intento di riflettere sulla crisi attuale come sfida per un nuovo modello economico e sociale, a partire da una disamina su varie forme di fragilità.
“Dalla precarietà all’inclusione”
“La precarietà è la condizione o lo stato di chi, compresi molti lavoratori, soffre di instabilità, insicurezza e incertezza”.
Con questa definizione, alquanto generica, è possibile sintetizzare la situazione che molti lavoratori di professionalità e di settori differenti vivono da molto tempo. Un disagio che si è acuito, in modo a volte anche drammatico, sin dai primi giorni del dilagare della pandemia determinata dal Coronavirus e che sta causando la crescita di nuove povertà nel nostro Paese.
L’intervento di Alessandro Capezzuoli (ISTAT)
È Alessandro Capezzuoli (ISTAT) che introduce la riflessione partendo da un’analisi dei dati, elaborata a partire dalla raccolta delle offerte di lavoro e delle professioni, che è sfociata nella realizzazione della piattaforma on-line IOLavoro. La piattaforma si rivela un prezioso strumento di monitoraggio dell’andamento delle offerte lavorative presenti sul web e rapportate alla Classificazione delle Professioni.
Capezzuoli evidenzia che una delle prime problematiche da affrontare, quando si parla di lavoro, è l’assenza di univocità nella definizione delle stesse e il rischio delle mode momentanee che non sempre sono riconducibili alle 800 classificazioni individuate.
La lettura dei dati relativi alle professioni si presenta complessa, caratterizzata da polarizzazioni a volte estreme, frammentarietà, instabilità e difficoltà di definizione connessa alla dinamicità della domanda che, nel corso della pandemia globale, ha portato alla luce un significativo vuoto di programmazione delle professioni sanitarie. Altra problematica di rilievo, a suo avviso, è dettata dal significativo scollamento che si osserva tra domanda e offerta di lavoro.
Allorché la domanda spesso si orienta alla ricerca di professionalità non sempre definite e certificate dai percorsi formativi istituzionali e, quindi, difficili da incardinare in processi standard.
Queste antinomie non possono essere ricondotte a un mero esercizio classificatorio e definitorio, né tantomeno a lacune legate ai processi di orientamento che certamente mostrano non poche debolezze di sistema, ma devono aiutarci a comprendere che il mondo del lavoro, oggi, si presenta fortemente polarizzato e frammentato e necessita di un approccio sistemico e disteso, volto a sostenere la ricomposizione dei flussi informativi che alimentano i diversi sottosistemi che vi afferiscono.
Infatti, il mismatch di competenze nella domanda-offerta di lavoro, non rappresenta solo un fattore di fragilità per i soggetti ma anche una grave criticità per il sistema Paese che non riesce a orientare le sue scelte strategiche in relazione ad alcune questioni cardine che riguardano le politiche industriali, le politiche di sviluppo e quelle legate al variegato mondo dell’education (con ciò inteso istruzione-formazione-lavoro).
L’intervento di Eleonora Voltolina
Con Eleonora Voltolina, fondatrice della testata online Repubblica degli stagisti, la riflessione si sposta sulla condizione di precarietà che caratterizza un gruppo specifico di soggetti, gli stagisti. Una categoria di persone in eterna formazione e tenuta ai margini del mercato del lavoro.
Una condizione di precarietà che il Covid-19 occulta completamente perché di fatto essi non sono assimilati allo status di lavoratori, quindi a loro non sono riconosciuti i diritti legati alla prosecuzione della loro esperienza lavorativa; ma soprattutto a loro viene negata la tutela del loro unico reddito. Per loro non sono previsti ammortizzatori sociali come per le altre categorie di lavoratori.
In una spirale di disagio che si autoalimenta la fragilità diventa precarietà, per essere poi sancita come invisibilità, che conduce all’esclusione e al rischio di restare intrappolati in ‘biografie bloccate’.
L’intervento di Ivan Lembo
Ivan Lembo (Responsabile del Dipartimento Politiche sociali – Camera del Lavoro di Milano) ricorda che il tema precarietà domina la scena da almeno dieci anni. Siamo entrati nel lockdown senza aver mai del tutto superato la pesante crisi del 2008. I molti tentativi di promuovere nuove opportunità di lavoro non hanno sortito gli effetti sperati. La deregolamentazione del mercato del lavoro, che si fondava sulla “mano invisibile” della domanda e dell’offerta, non ha creato i posti di lavoro attesi.
Egli sottolinea che non si creano opportunità partendo dalle norme. Le opportunità si creano da una visione condivisa di sviluppo che deve poi essere regolamentata. Le prime vittime di questo sistema sono soprattutto i giovani e le donne. Nell’emergenza Covid-19 si sono rese evidenti tutte le povertà prima semplicemente ignorate e che sono venute alla luce appena gli effetti della chiusura totale hanno fatto saltare la prima mensilità, rivelando tre grandi criticità.
La prima è che l’Italia, da sempre distintasi per la cultura del risparmio, ha una popolazione che non riesce più a fronteggiare le emergenze, poiché il salario è appena sufficiente a poter vivere.
La seconda è che il nostro sistema di welfare è inadeguato e riesce ad assistere, anche in ritardo (come nell’esempio della cassa integrazione), solo alcune categorie.
La terza è che il vero ammortizzatore sociale del nostro Paese è la famiglia. E in un Paese dove non si investe sulla famiglia e sulle comunità locali, che rappresentano il tessuto sociale in cui le famiglie sono inserite, anche questo collante mostra evidenti segni di crisi.
Si continua dunque a soccorrere la precarietà, ma non si interviene sulle cause della stessa. Secondo Lembo ci sono alcuni nodi centrali e non più rinviabili:
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il problema della diseguaglianza che continua a polarizzare la società;
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la questione della redistribuzione della ricchezza connotata da estremi che rimandano a scenari ancor più instabili;
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l’assenza di una classe dirigente capace sia di costruire strategie di ampio respiro, sia di programmare nel lungo periodo;
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l’assenza di un ascolto e di un intervento sui territori capace di rendere effettivo il concetto di “governance” partecipata, superando la tendenza a intervenire con “misure d’emergenza” e calate dall’alto.
Il discorso si sposta sulle misure adottate per la gestione dell’emergenza economica durante la pandemia.
L’intervento di Paolo Iacci
Paolo Iacci (Associazione Italiana Direttori del Personale) si sofferma, tra le altre cose, sul tema delle politiche attive, sottolineando che “il reddito di cittadinanza” non può essere definito una politica attiva. In primo luogo, perché esso non è in grado di attivare un circolo virtuoso tra sostegno al reddito, formazione e ricollocazione.
Ma anche perché, data la farraginosità delle regole che lo governano, appare inaccessibile anche all’imprenditore più volenteroso, in considerazione del fatto che le agenzie dell’impiego continuano a essere scollegate dal mercato della domanda e dell’offerta di lavoro. Non a caso il lavoro in Italia continua a essere trovato, prevalentemente, attraverso le reti informali e non tramite le agenzie di collocamento.
Tra le altre fragilità di questo sistema si devono ricordare tutti quei giovani che, non rientrando in questa misura, cercano le occasioni di realizzazione della propria vita fuori dal nostro Paese. Ogni anno 130mila giovani lasciano l’Italia e cercano opportunità di vita altrove. Il nostro Paese investe nella loro formazione (oltre alle famiglie) e, tuttavia, ogni anno si assiste a un’emorragia di risorse umane.
Anche il tentativo di prevedere agevolazioni per le aziende che assumono risorse che hanno lavorato all’estero, con l’obiettivo di riportarle in patria, non ha riscosso il successo sperato. Molti dei giovani intervistati per comprendere le ragioni del fallimento di questa misura hanno risposto che:
“Anche in presenza di salari appetibili non ritornano in Italia perché non hanno fiducia nelle opportunità che offre il nostro Paese”.
L’intervento di Felice Oteri
Felice Oteri (Consulente di direzione e formatore) sposta la riflessione sul tema del valore del lavoro, sottolineando che la vera sfida si deve giocare sul piano culturale, per valorizzare la dimensione umana del lavoro come occasione di cittadinanza, partecipazione e inclusione.
La “fine del lavoro” e il sostentamento al reddito, attraverso i sussidi pubblici ricavati dalla tassazione dei robot, è un tema ricorrente, proposto come allettante promessa di sussidio finalizzato a liberare dalla fatica fisica per dedicarsi al mero consumo di ciò che le macchine producono. Questa prospettiva assegna al lavoro un‘unica funzione, ovvero quella di produrre un reddito. Ma il lavoro non è solo un salario.
La dimensione umana del lavoro, sottolinea Oteri, è il senso stesso dell’esistenza umana, che prende forma nell’espressione della creatività, dell’emancipazione e degli sforzi collettivi che generano l’appartenenza e il benessere di una comunità.
Già l’impresa olivettiana riconosceva il valore della centralità della persona, auspicando un nuovo Umanesimo del lavoro. L’attuale schema di pensiero applicato alla povertà e alla precarietà continua a oscillare tra le categorie del paternalismo e della sorveglianza, producendo di fatto inconcludenti politiche passive del lavoro. Per superare questo limite, occorre riflettere sulla multidimensionalità del lavoro e sulla sua dimensione sociale, oltre che economica.
L’intervento di Claudio Achilli
Claudio Achilli (Docente 24 Ore Business School) parte da una domanda. Sarà capace, l’Italia, di cogliere nella crisi economica post-Covid-19 quelle opportunità che possono finalmente farle compiere un salto di qualità, mettendo mano alle lacune di sempre?
Per parlare di politiche attive e di inclusione si deve partire dalla formazione. Lo scenario non è dei migliori se pensiamo a cosa potrà accadere dopo l’estate, quando l’evidenza delle perdite economiche relative al turismo e a tutto il suo indotto si riveleranno in tutta la loro drammaticità. Si procede con lentezza. Troppa.
La sola applicazione del Decreto “Salva Italia” richiede la produzione di centinaia di regolamenti attuativi. Il rischio vero è la paralisi e l’incapacità di cogliere, nella crisi, le opportunità offerte dalla possibilità di immaginare misure straordinarie. Per includere occorre ripartire dai bisogni delle persone e fornire loro gli strumenti idonei al governo del proprio destino. Per questa ragione, si deve partire dalla formazione.
Tiriamo le somme della conferenza “Dalla precarietà all’inclusione”
È difficile tirare le somme delle molte facce della precarietà affrontate in questa Tavola Rotonda. Ma uno sforzo va fatto. La varietà dei temi affrontati del resto è parte integrante di questa fragilità e sta a dimostrare che il tema ‘lavoro-precarietà-inclusione’ non può essere trattato mediante un approccio di policy tipicamente novecentesco, basato sulla settorializzazione degli interventi; piuttosto richiede un approccio nuovo per far dialogare segmenti tradizionalmente distinti ma, soprattutto, promuovere una visione del lavoro volta a superare la prospettiva meramente mercatista, legata alla produzione, in favore di una visione globale capace di recuperare e valorizzare un “nuovo umanesimo” più orientato alla cura.
È la cura, infatti, che ha consentito all’umanità di perpetuarsi dagli albori della vita fino alle soglie della modernità (che si è imposta e sviluppata a svantaggio di tre quarti della popolazione mondiale). Questo cambio di prospettiva impone di passare, utilizzando una metafora fotografica, dall’uso dello zoom a quello della panoramica e questo richiede necessariamente di modificare lo sguardo, l’uso delle lenti e della luce che determinano la visuale, strumenti, tecniche e competenze. Un cambio di prospettiva che ancora non si riesce a fare perché tocca molte dimensioni e interessi.
Il fil rouge che accomuna i contributi di tutti i relatori è la grande frammentazione, la dispersione e il profondo senso di solitudine che fa da sfondo a questa complessità e che avviluppa tutti. Una fatica che grava non solo sui soggetti fragili o in condizioni di precarietà ma anche sugli operatori, gli esperti e gli addetti ai lavori che vengono a perdere i necessari punti di riferimento e di ancoraggio per traghettare chi si trova in condizioni di disagio verso un inserimento attivo che sia in grado di spezzare definitivamente le catene dell’assistenzialismo.
Quali sono i fattori che alimentano la precarietà?
Nel tentativo di sintetizzare gli elementi che alimentano le condizioni di precarietà appena tratteggiate nel corso della Tavola Rotonda sembra possibile soffermarsi sui seguenti punti.
In primis, la questione del mismatch di competenze e della necessità di pensare a un sistema delle professioni che sia in grado di superare il modello del lavoro di stampo novecentesco.
Si rende necessario un allargamento e la revisione di profili e competenze emergenti che faticano a essere incardinati all’interno di schemi incapaci di contemplare gli sviluppi di un mondo del lavoro imperniato sulle logiche e i modelli dirompenti dettati dalla rivoluzione digitale.
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Secondo Eurostat, solo il 42% degli italiani tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali almeno a livello base (è il 58% nell’UE), con un impatto rilevante sull’utilizzo dei servizi digitali.
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L’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi Europei per l’uso di Internet (dati Eurostat 2019), con il 17% delle persone di età compresa tra 16 e 74 anni che non ha mai navigato in rete.
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Rispetto ai laureati ICT, il gap tra domanda e offerta sta crescendo (Digital Skills Observatory 2019); nonostante ciò i nostri migliori laureati continuano ad andare all’estero perché non trovano nel nostro Paese prospettive di lavoro allettanti ma soprattutto non hanno fiducia nel sistema-comunità.
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Il 30% della nuova forza lavoro necessaria in Italia sarà impiegato, nei prossimi anni, in lavori legati all’utilizzo di tecnologie digitali o all’economia circolare.
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Il Digital Economy & Social (DESI) Index posiziona l’Italia, anche nel 2019, ai livelli più bassi per quel che riguarda la dimensione “Capitale umano”.
Questi dati ci dicono che l’emergenza attuale si innesta su una situazione di allarme largamente testimoniata da tutte le fonti istituzionali citate, e che affonda le sue radici ben prima della pandemia globale che stiamo ancora vivendo.
Questi dati ci impongono di considerare che il mondo del lavoro è attraversato dalla radicale trasformazione introdotta dalla cosiddetta Industria 4 e che investe con prepotenza tutte le professionalità.
Fino a venti anni fa l’innovazione tecnologica si giocava sul piano della automazione, quindi produceva eccesso di manodopera sul versante del lavoro manuale. Oggi l’innovazione digitale, con i progressi connessi ai data analytics e all’intelligenza artificiale prevede l’obsolescenza del lavoro concettuale.
Questo fa emergere nuove fragilità e la polarizzazione del sistema delle professioni e del mondo del lavoro che vede contrapposti, da una parte, soggetti high skills, persone che hanno maturato esperienze e competenze di rilievo per cui sono sempre più ricercati e sempre più pagati, e dall’altra una grande fetta di popolazione low skills; persone poco qualificate oppure qualificate ma impiegate in settori a bassa tutela (badanti, operatori socio-sanitari, educatori socio-assistenziali ecc.) che si trovano a vivere il disagio di un’eterna transizione, da un contratto a progetto a un altro, dove spesso si gioca al ribasso.
Sono situazioni, queste, a cui le politiche attive, le politiche sociali, le politiche formative, le politiche per la famiglia e la comunità tutta, attraverso una prospettiva di sistema, dovrebbero fare lo sforzo di rispondere in modo diverso, perché l’ambito della ‘cura’, come l’emergenza ha ben dimostrato, non è intercambiabile né derogabile.
Si pone, inoltre, il tema delle categorie fragili. Categoria assai variegata.
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Ci sono gli ‘stagisti’, sospesi nell’oblio tra formazione e lavoro, costretti spesso a collezionare percorsi di studio alla ricerca dell’ennesimo stage su cui riporre le proprie speranze di inserimento.
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Ci sono i giovani, categoria che in Italia arriva almeno a 30 anni, sotto la deriva culturale di quanti li vorrebbe mantenere ‘bamboccioni’ a vita senza mai riconoscere loro ruoli di responsabilità perché inesperti.
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Ci sono poi gli over 45 e subito dopo gli over 50 che sono ‘già troppo vecchi’ o troppo qualificati.
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Ovviamente si deve considerare l’ampia e variegata platea di soggetti immigrati, portatrice spesso di titoli di studio importanti, perché ad arrivare sulle nostre coste sono le élite che si sono liberate del problema della sussistenza e hanno risparmiato abbastanza da investire tutto nei cosiddetti ‘viaggi della speranza’.
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Ci sono inoltre tutti i portatori di varie forme di disabilità che potrebbero essere trattati con adeguate ‘diversity policy’ e strategie di ‘diversity management’ per essere trasformati da peso in valore per la comunità.
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Ci sono le donne, che il retaggio culturale vuole fragili per definizione.
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Da ultimo c’è una pletora di ‘invisibili’, che vive in condizioni di povertà più o meno estrema, a cui si accompagna la povertà sociale ed educativa che trasformano la condizione di isolamento in una trappola senza via di uscita, se non quando, rischio di una ‘bomba sociale’.
Un ulteriore elemento che concorre ad alimentare tutte queste precarietà è nella crisi di leadership che riscontriamo da decenni, a tutti livelli e in tutti i settori – politica, amministrazione, sistema imprenditoriale.
Proprio chi dovrebbe contribuire a promuovere nuovi modelli e nuove prospettive da trasformare in azione, mediante la progettazione di interventi di sistema di lungo periodo, fatica a intravedere e utilizzare alternative possibili.
In una situazione paludosa come quella in cui ci troviamo non si possono cercare soluzioni innovative ricorrendo agli strumenti di sempre. È necessario rompere gli schemi. E l’esperienza della quarantena forse in questo può aiutarci, perché ci ha obbligato a rompere gli schemi e a rendere possibile tutto quello che era impossibile fino a tre mesi fa.
Cosa ci ha insegnato la pandemia?
Ci sono due cose che la pandemia globale ha insegnato a tutti noi.
La prima è che “nessuno si salva da solo” e che l’altro può – e deve – essere un alleato. Per la risoluzione di problemi complessi (come insegna la sociologia dell’organizzazione) si deve agire in maniera coordinata e coesa.
La seconda è che il concetto di ‘cura’ non può essere interpretato in un’accezione negativa meramente assistenziale, residuale e istituzionalizzata, ma impone il recupero di quella accezione positiva che si esprime attraverso l’espressione di sé e l’agire solerte e premuroso nei confronti dell’altro, dell’ambiente e delle cose con cui entriamo in relazione.
Valorizzare il modello di cura in luogo del modello di produzione significa immaginare e progettare un sistema sociale e comunitario diverso, che affonda le sue radici in un sistema culturale, organizzativo e del lavoro che riconosce e mette al centro la persona piuttosto che il consumo.
È almeno dagli anni Novanta che si teorizza la necessità di passare dalle politiche attive alle politiche integrate. Delle politiche capaci di far dialogare soggetti, competenze e livelli diversi attraverso azioni e interventi di sistema volti a valorizzare i territori e a dare senso a quel concetto di ‘governance’ che, se non agito, si trasforma in frammentazione di competenze e delega di responsabilità.
“Se la crisi è quel momento in cui qualcosa di vecchio sta morendo e qualcosa di nuovo sta nascendo” è questo il momento di promuovere maggiore partecipazione e maggiore coinvolgimento, con l’intento di alimentare quella che il World Economic Forum definisce una delle competenze chiave per il XXI secolo, e cioè la consapevolezza sociale e culturale che si esprime nell’abilità di interagire con altre persone in maniera socialmente responsabile ed eticamente orientata.
È su questa scia che si pone quindi la seconda Tavola Rotonda su “Transizioni e orientamento” che si svolgerà il giorno 1 luglio 2020 (ore 15:30-17:30) nel tentativo di leggere, interpretare e imparare a gestire i cambiamenti a cui il soggetto è sottoposto e a cui bisogna imparare a dare nuove risposte.
Stefania Capogna