Perché credere? L’intervista a don Alberto Ravagnani, il noto “prete youtuber”, su Chiesa, fede, amicizia e…Fedez usando il linguaggio multimediale dei giovani.
Il canale Youtube
L’idea è piaciuta tantissimo ed è diventato il breve tempo un fenomeno mediatico. Ad oggi, il suo canale “Don Alberto Ravagnani – Viva la Fede” ha quasi 80mila iscritti. Il suo primo – nonché più popolare video – “A cosa serve pregare” ha oltre mezzo milione di visualizzazioni. Ma altri titoli molto seguiti sono: “Perché BESTEMMIARE è problematico (e non è questione di essere bigotti!)“; “Perché pregare il ROSARIO (non è una roba da vecchi)“; “Perché avere fede non è da sfigati (W la Fede!)“. Fino al recentissimo “La CHIESA può cambiare? La mia risposta a FEDEZ“: pubblicato lo scorso 13 luglio, ha già raggiunto le 130mila visualizzazioni.
Coronavirus
Tutto è iniziato a causa del Coronavirus: “Prima dell’isolamento per il coronavirus – ha spiegato don Alberto Ravagnani all’edizione milanese del Corriere della Sera – non avevo neppure un canale YouTube. Poi, mi sono accorto che la mia missione era continuare a interagire con le centinaia di ragazzi del quartiere che gravitavano attorno all’oratorio san Filippo Neri”. Brevi video dal linguaggio diretto e giovanile che spiegano i grandi e piccoli punti chiave della fede cristiana. I video sono piaciuti così tanto che sono seguiti da migliaia di utenti ogni giorno.
Perché credere?
La giornalista Milena Castigli ha intervistato per In Terris don Alberto Ravagnani incentrando le domande sulla storia della sua vocazione: dalle difficoltà vissute nei primi anni, alla particolarità di essere un giovane prete in una società liquida e secolarizzata come quella attuale, fino ai pro e contro del recente successo mediatico. Con, in conclusione, i consigli per quei bambini che da grandi vorrebbero fare…il prete!
L’intervista a don Ravagnani
Don Alberto, quando hai sentito la chiamata vocazionale per la prima volta?
“E’ accaduto tra il terzo e il quarto anno delle scuole superiori durante una vacanza in montagna con l’oratorio. Per me quella fu anche la prima volta che facevo un’esperienza simile fuori casa, senza genitori. E’ stata una svolta per la mia vita perché – durante quel soggiorno – sono avvenute due cose importanti.
Quali sono?
“La prima: ho conosciuto degli amici veri. Fino ad allora, l’amicizia era un dono che non avevo ricevuto. La seconda: per la prima volta ho preso consapevolezza della mia vita, dei miei limiti, delle ferite che mi portavo dentro. Ma da queste ferite non è uscita rabbia o risentimento, ma – al contrario – è entrato l’amore di Dio. Per la prima volta mi sono sentito profondamente amato e veramente felice”.
Dopo questo primo incontro, cosa è avvenuto?
“Nelle settimane seguenti la vacanza e l’esperienza forte con l’amore del Signore, mi sono accorto che ero cambiato: ero una persona nuova. Prima, ero chiuso, timido, più triste. Poi, sono diventato molto più aperto, entusiasta, propositivo perché mi sentivo felice. Col passare dei giorni, mi sono reso conto che stavo bene perché avvertivo una sorta di presenza accanto a me.
All’inizio in modo quasi impercettibile; poi, con le settimane, sempre più forte, evidente. Alla fine non ho potuto non ammettere che si trattava del Signore. Da quel momento, mi sono ‘fregato’, perché ho deciso di conoscere questo ‘Dio’ che era entrato nella mia vita. E più lo conoscevo, più mi innamoravo di Lui. Ho passato gli anni del quarto e quinto superiore da ‘innamorato’: scrivevo le poesie, andavo in giro canticchiando, ero felicissimo…”
Perché credere?
Come hanno vissuto i tuoi genitori la notizia che saresti entrato in seminario?
“Non l’hanno presa bene, inizialmente. Per niente. E’ stata per loro una notizia traumatica ed hanno impiegato diverso tempo per metabolizzarla. Poi però, quando hanno visto che ero felice e che la mia scelta di vita mi donava tanta gioia, si sono riconciliati. Oggi siamo in pace. Ma all’inizio la loro opposizione mise davvero alla prova la mia fede. Era la prima volta che vivevo un contrasto così radicale coi miei genitori e il loro iniziale rifiuto mise alla prova la mia vocazione. Poi, il grande passo: il sacerdozio, a 24 anni”.
Cosa significa essere “giovane” e “sacerdote” nella società moderna?
“E’ interessante perché presbitero significa “anziano”; ma io sono un ‘anziano’ giovane . Ho dunque la possibilità di stare in mezzo ai miei coetanei, a bambini ed adolescenti ma come figura adulta. Perché io – a differenza della maggior parte dei miei coetanei – ho già preso una decisione forte e definitiva nella mia vita. Ho una posizione solida dal punto di vista esistenziale. Perciò posso essere da esempio per i giovani affinché abbiano il coraggio di prendere decisioni importanti e radicali nella vita”.
Cosa pensi che manchi ai giovani di oggi?
“Io sono diventato sacerdote a 24 anni. Tra tutti i miei amici e conoscenti, sono l’unico ad aver preso una decisione decisiva in giovane età. Tutt’ora, a 27 anni, sono ancora l’unico ad essermi ‘sistemato’. Ai giovani di oggi manca forse un po’ di coraggio nel prendere scelte radicali, nel mettere un punto nelle loro vite. Che sia il matrimonio o la missione, il lavoro o la vocazione. Sono molto fragili: magari hanno tante cose e vanno in vacanza da soli o in discoteca a sballarsi già da giovanissimi. Ma poi, chiamati ad affrontare problematiche importanti a livello familiare o scolastico o anche nella cerchia di amici, sono come sperduti”.
A che cosa è dovuta, a tuo dire, questa profonda fragilità dei giovanissimi?
“Principalmente, alla debolezza degli adulti che li circondano. Non solo (eventualmente) dei padri e delle madri; ma anche delle figure di riferimento, quali insegnanti, maestri, catechisti, istruttori e a volte anche preti. Questa società è fatta di ‘adulti non molto adulti’, vale a dire di persone che fanno fatica ad assumersi responsabilità e vorrebbero essere giovani in eterno. Per tali motivi, la fatica di crescere dell’adolescente spesso non è accompagnata dalla solidità delle persone preposte ad aiutarlo”.
Che cosa consiglieresti dunque ai giovani di oggi?
“A loro consiglio di compromettersi, di dare la propria vita per qualcosa. Io l’ho fatto sulle orme del Vangelo, per amore di Dio e della gente. Credo che questo possa essere un esempio anche per loro”.
Tu fai lo youtuber, un’attività che in genere non è associata alla figura del sacerdote. Pensi che ci sia necessità di consacrati e consacrate che entrino nei ‘mondi’ – internet, musica, giochi – seguiti dai giovani?
“Dipende. Forse necessario non lo è. Questa cosa è positiva qualora venga fatta con naturalezza. Non bisogna entrare ‘dappertutto’ senza però comprenderne i linguaggi. Si rischia di essere un corpo estraneo con risultati negativi. Non si tratta di fare il ‘falso giovane’. Ma di vivere la realtà che è intorno a noi. Ho scelto di fare dei video su youtube perché questo è uno dei mezzi usati dai giovani di adesso che prediligono i linguaggi multimediali. Se io non avessi parlato la loro stessa ‘lingua’, avrei forse un po’ mancato nel mio servizio”.
Qual è il fine della tua opera attraverso youtube?
“Il fine principale non è entrare nel mondo dei giovani, ma annunciare il Vangelo, anche attraverso canali comunicativi nuovi. Il messaggio millenario di salvezza della Chiesa è sempre lo stesso. Cambia però il modo di proporlo”.
Come stai vivendo questo inaspettato successo?
“Il successo credo che non mi abbia cambiato a livello personale e neppure nella quotidianità. La mia vita è sempre la stesa e le priorità sono sempre i ragazzi e le attività di oratorio che svolgiamo qui in parrocchia. Questo successo credo che sia molto relativo. Si è parlato di me solo perché forse sono stato il primo a fare un canale su Youtube per proporre la fede ai giovani”.
Aspetti positivi della notorietà?
“Il successo mi ha permesso di poter conversare positivamente con persone anche con idee diverse dalla mia – come recentemente avvenuto con Fedez e Saviano – che prima potevo solo guardare da lontano, da spettatore, e ora sono interlocutori. Vivo questo periodo con la speranza che questo sia solo l’inizio per poter portare il vangelo ancora più in là nel mondo, digitale e non”.
In che modo questa esperienza ha cambiato la tua vocazione?
“Non lo vivo come un successo ma come un aspetto del ministero che sto vivendo. Già in parrocchia i sacerdoti sono personaggi pubblici. Ora questa cosa la sto vivendo un po’ più in grande. Non credo che però mi stia cambiando nel profondo…Sono più consapevole del bisogno di annuncio del Vangelo che c’è nel mondo. Sono più accorto e responsabile della mia vocazione e del mio ministero. La mia vocazione si è ampliata, approfondita….però sono sempre io!”
Pensi che debba cambiare la comunicazione nella Chiesa del nuovo millennio?
“Deve cambiare il modo di comunicare, specie sulle tematiche di morale sessuale, particolarmente centrali per i giovani. Ma non deve cambiare il messaggio. Anzi, mi rendo conto che il Magistero è molto più avanti e moderno di quanto si pensi. E’ solo il modo di comunicare che deve modernizzarsi per poter meglio spiegare alle nuove generazioni perché crediamo e in che cosa crediamo. Ci sono molti pregiudizi sulla Chiesa. Questo qualunquismo diffuso va combattuto. La Chiesa ha molto da dire, ma deve trovare il modo giusto per dirlo: ci vogliono i canali e i linguaggi giusti”.
Infine, cosa consiglieresti a un bambino o a un adolescente che dicesse che, da grande, vuole fare il prete?
“Gli consiglierei principalmente due cose. La prima è di pregare. Fare il prete non è solo ‘fare tante cose’, quali l’oratorio, le catechesi etc. Ma principalmente è avere un rapporto con Gesù che va coltivato, va fortificato e fatto crescere perché cambia col passare del tempo. Il rapporto col Signore va custodito e approfondito attraverso la preghiera tutti i giorni. Il secondo consiglio è: non sottovalutare l’importanza dell’amicizia. Il cammino di fede non è un cammino da fare da soli. La fede é sì una cosa intima, ma non privata! E’ perciò giusto avere degli amici con i quali condividere anche la propria fede. Per non camminare da soli lungo la strada che ci porta a Gesù: una strada gioiosa piena d’amore”.