La musa romantica e il suo lato oscuro
Nella prima metà dell’Ottocento, tra gli artisti e molte nobildonne, si affermò l’ideale di bellezza proposto dal romanzo gotico, che esaltava l’interiorità, in particolar modo le sofferenze, attraverso pelle diafana, occhi grandi e febbricitanti, espressioni passionali e sofferte, labbra rosse che contrastavano con il pallore. Erano queste le caratteristiche della musa romantica, che rappresentò uno dei principali ideali di bellezza femminile del XIX secolo, e che nascondeva un aspetto oscuro e maledetto.
Nei salotti letterari dell’epoca erano infatti molto apprezzati i volti pallidi e affilati: la tisi era la malattia che determinava la maggior mortalità del periodo, specialmente di chi viveva in povertà. Gli artisti vivevano ai margini della società borghese e ne disprezzavano agi e privilegi: nacque così la stretta relazione tra artista e “malato”, ed è per questo che la musa romantica era pallida e febbricitante.
Un chiaro esempio di tale ideale si ritrova in Mimì, la sfortunata protagonista de “La traviata” che muore di tisi tra le braccia dell’amato.
L’ideale di bellezza proposto dal romanzo gotico, ripreso poi dal Romanticismo, coinvolse uomini e donne degli ambienti artistici.
La ricca signora borghese
L’Ottocento è stato il secolo in cui si affermò la borghesia, segnando nuovi costumi e modelli di vita. Un inedito modello di bellezza femminile coesisteva con quello della musa romantica: la ricca signora borghese, che aveva forme morbide, spalle rotonde e piene, mani piccole e paffute, volto tranquillo e sorridente.
Era il ritratto della femminilità e della salute, la sua bellezza faceva leva soprattutto sulle rotondità marcate, simbolo di benessere sociale e di maternità, era quasi un dovere: un riconoscimento del successo economico del marito.
La signora borghese non mancava però di libertà ed era ben valorizzata nella società: mediamente istruita, si dedicava spesso alla beneficenza, accompagnava il marito a teatro e ai ricevimenti.
La sensualità era controllata e rigorosa: abiti molto lunghi e strati di biancheria nascondevano il corpo, il busto doveva assicurare il vitino di vespa, anche a prezzo di dolori e svenimenti.
Il trucco del viso era abolito perché associato a prostitute ed attrici: la pelle, che per apparire giovane e sana deve essere rigorosamente bianca, veniva protetta dal sole con velette e ombrellini.
L’importanza dell’igiene personale nell’Ottocento
Grazie alle ricerche di Louis Pasteur (1822-1895), padre della microbiologia, nel XIX secolo si capì l’importanza dell’igiene personale: i bagni erano caldamente raccomandati come un toccasana e nacque l’idroterapia.
In quell’epoca andava di moda il costoso “bagno a dondolo”, ideato e fabbricato in Italia da Gioacchino Pisetzky: si trattava di una tinozza arrotondata che, muovendosi come una sedia a dondolo, permetteva di creare “onde” che accarezzavano e massaggiavano delicatamente la persona.
Le ricette cosmetiche, grazie ai risultati delle nuove ricerche scientifiche, presero un indirizzo più razionale, abbandonando le antiche e pericolose pratiche.
Il progresso industriale consentì anche la nascita delle prime industrie cosmetiche: nel 1890, a Parigi, comparve la prima Maison de Beauté di madame Lucas, cui seguirà nel 1907 quella di Helena Rubinstein.
Alessandra Leo