dopo il debutto in prima regionale DOMANI (giovedì 3 settembre) alle 21 all’Anfiteatro Mario Ceroli di Porto Rotondo (Olbia), la pièce approderà venerdì 4 settembre alle 21 al Teatro Civico Oriana Fallaci di Ozieri, sabato 5 settembre alle 21.30 nel cortile delle ex Caserme Mura di Macomer e infine domenica 6 settembre alle 20.30 a Lo Quarter di Alghero –
per una riflessione sull’amore e il suo contrario, tra l’antica favola “nera” e le moderne cronache di abusi fisici e psicologici fino all’estremo del “femminicidio” – nell’ambito del Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna.
Sotto i riflettori il poliedrico cantante, compositore e attore siciliano Mario Incudine (sue anche le musiche originali, eseguite dal vivo all’organetto da Antonio Vasta) – che collabora con artisti come Peppe Servillo, Eugenio Bennato, Ambrogio Sparagna e Lucilla Galeazzi, Tosca e Antonella Ruggiero e ha duettato con Francesco De Gregori, Lucio Dalla e pure Alessandro Haber – nel ruolo del crudele assassino, il quale in «un delirio surreale di lucida follia» confessa i suoi delitti e cerca una spiegazione se non una giustificazione per le sue azioni efferate.
Barbablù, lo spietato carnefice di donne ignare, forse innamorate, è un uomo preda dei suoi fantasmi e delle sue ossessioni, incapace di liberarsi dai ricordi così come di provare una vera empatia per le sue vittime, che con mani insanguinate si erge a giudice della morale altrui, inducendo le sue giovani spose a varcare quell’unica soglia proibita per concedersi il gusto di “punirle” per la loro disubbidienza.
Un feroce tiranno entro le mura domestiche – perfetta incarnazione di una cultura patriarcale in cui al padre e marito era concesso perfino il diritto di vita e di morte su moglie e figli – dietro la maschera affabile del ricco e forse raffinato signore, tanto da apparire come un “buon partito” ai genitori di fanciulle in età di sposarsi, desiderosi di garantire loro un futuro di prosperità e benessere se non di felicità – e magari una possibilità di ascesa sociale.
Un aristocratico dai modi gentili, capace di conquistare la fiducia dei parenti e magari di ammaliare, con il suo dramma di vedovo inconsolabile nel rimpianto per una donna amata, creature sensibili e “romantiche” pronte a condividere con lui il loro destino.
Una favola “nera” inserita da Charles Perrault nella sua raccolta di “Histoires ou contes du temps passé” in cui il monito contro la curiosità femminile s’intreccia all’archetipo del pericoloso seduttore e del marito che nasconde un terribile segreto (oppure colpito da una maledizione o da un incantesimo), tra echi di storie e leggende su spose scomparse e individui accusati di orrende stragi di innocenti nel corso di riti orgiastici, oltre che di varie brutalità e sfrenatezze.
La figura di “Barbablù” emerge dalle nebbie del passato e dall’universo fiabesco nella tremenda realtà e purtroppo attualità della violenza di genere, che troppo spesso culmina in tragedia – ma pure laddove la vittima riesca a sfuggire lascia impressi profondi graffi sull’anima.
Mario Incudine interpreta il famigerato “cattivo” della favola – un malvagio senza possibilità di redenzione – nella rilettura in chiave contemporanea della giornalista e scrittrice Costanza DiQuattro:
un intenso monologo, quasi un flusso di coscienza, in cui il protagonista si racconta e si rivela «nella sua essenza di uomo, di bambino ferito, di amante frustrato, di figlio non amato.
Lui, uomo del suo tempo per ogni tempo». Focus sullo spirito inquieto di un Barbablù perennemente insoddisfatto, che vede sé stesso più che come “cruento assassino” come un “instancabile amante”, alla ricerca di un’irraggiungibile perfezione, ovvero di colei che se esistesse potrebbe indurlo a mettere fine a quell’incubo, a trovare finalmente la pace.
Un eroe in negativo – fin troppo umano nelle sue ansie e aspirazioni, a dispetto della maschera deformata e grottesca del “mostro” – che narra a ritroso la propria esistenza, in cui i volti delle sue vittime finiscono per sovrapporsi, forse per confondersi, ma non per lui, in un’unica scia insanguinata:
egli, unico superstite, rammenta perfettamente «i sette amori vissuti, le sette vite distrutte fino all’ultima, l’unica per la quale valeva la pena fermarsi».
Viaggio nella mente di un assassino con le memorie di “Barbablù”, nella mise en scène firmata da Moni Ovadia, dove il protagonista è prigioniero nella sua stanza degli orrori, con uno specchio dove si riflette la sua immagine insieme a quelle delle infelici spose, sacrificate alla sua perversa volontà di vendetta e all’insensata bramosia, nella ricerca di una ideale e inaccessibile “purezza”.
Un dramma antico e moderno – una vicenda fantastica e “a lieto fine” almeno nella trascrizione di Charles Perrault, grazie al tempestivo intervento dei fratelli che salvano la sposa e uccidono il “mostro”, ma non sempre nelle moderne e più realistiche versioni riportate sulle pagine dei giornali.
La pièce mette l’accento su un tema scottante e attuale, che val comunque la pena affrontare, per sottolineare quanto sia ingiustificata e inaccettabile quella “follia omicida” scaturita da una visione distorta dell’ “amore” – e della mancanza di rispetto:
«Io, dico io, messer Barbablù la mia storia non l’avrei raccontata a nessuno» – dichiara il protagonista nello spettacolo «ma l’ho fatto per l’ultima volta, nella speranza che di me e di quelli come me finalmente non se ne parli più».