“Qui abbiamo tutti la fedina penale limpida. Cerchiamo un lavoro, ma come capiscono che siamo ‘zingari’ ci mandano via”.
Il 9 agosto scorso nell’area si è sviluppato un incendio che ha tenuto occupati i Vigili del fuoco per diverse ore. Un rogo tossico, un fuoco che ha spazzato via parte dei rifiuti ma ha riacceso le polemiche e i riflettori su una zona di Roma da sempre funestata da accampamenti abusivi e fumi maleodoranti. Milan e i suoi familiari sono solo gli ultimi di una serie di occupanti ad aver abitato nell’area a ridosso del rudere di Tor Cervara. In molti in zona conoscono ‘la discarica del rudere’, ma non tutti sanno che lì dentro ci vivono delle persone, compresi 4 bambini.
Milan ci accoglie nel suo piccolo villaggio. È pulito, la zona delle baracche è ben tenuta. Ci sono gli ombrelloni e i giochi dei bambini. La moglie ci mostra la loro baracca. E’ rivestita internamente, ordinata, per terra ci sono dei tappeti, l’aria profuma di buono. Eppure non ci aspettavano. Non sembra una baracca ‘comune’ di un qualsiasi campo rom. Giulia, la piccola, 4 anni, ha degli occhi grandi e celesti e ci guarda mentre parliamo a tavola con nonno Milan e suo figlio Giacomo, il papà. “Siamo sommersi dai rifiuti, ma non li abbiamo portati noi. Sono stati i vecchi occupanti. Ora però ci cacciano per quelli. Dicono che è pericoloso”, spiega. “Anzi noi abbiamo pulito e siamo puliti: qui abbiamo tutti la fedina penale limpida. Cerchiamo un lavoro, ma come capiscono che siamo ‘zingari’ ci mandano via. Vorremmo lavorare, fare la domanda per una casa popolare. Vivere in maniera dignitosa. Ma di fatto è impossibile”, sottolinea Milan.
Nel mettere in fila tutti i buchi del sistema di integrazione, senza accorgersene, Milan racconta la storia della sua famiglia, che inizia in Abruzzo, a L’Aquila per la precisione, quando il terremoto del 6 aprile del 2009 seminò morte e distruzione. Milan e i suoi, dopo aver tentato invano di accedere ad una delle casette per gli sfollati post sisma, rinunciarono e vennero a Roma. Milan, la moglie, i figli e le rispettive compagne con figli piccoli, hanno girovagato un po’ e alla fine sono finiti qui, a Tor Cervara, all’ombra di un rudere e di montagne di spazzatura, in una proprietà privata di “un signore che ora è morto e ha lasciato tutto così”.
Mentre camminiamo tra cumuli di rifiuti, passiamo in rassegna alcune baracche di legno. I lucchetti sono chiusi. “Questi nostri amici se ne sono andati. Perché noi non possiamo rimanere qui? A chi diamo fastidio?“, si chiede polemicamente il 54enne, mentre ci mostra le cataste di ferro pronte per essere vendute. “Raccogliamo il ferro nei cassonetti della spazzatura, li mettiamo da parte e poi li vendiamo. Cosa possiamo fare?”. Torniamo al tavolo, dove è rimasto il resto della famiglia. La moglie di Milan, ci chiede sottovoce: “Tu non conosci un posto dove possiamo andare e non essere in pericolo con i bambini?”. Intanto Milan ci mostra il documento, la carta di identità targata Romania, mentre il figlio Giacomo, accende un’altra sigaretta e ci racconta le tante domande fatte nei ristoranti e nei bar della zona per lavorare come cameriere: “Ma niente, per i romani noi siamo ‘zingari’”.
“Questa è Roma, la città delle possibilità? Io non capisco come sia possibile- incalza il padre – cosa dobbiamo fare? Dormire in mezzo alla strada? Possibile che non ci si un modo per vivere? Dovremmo affidarci ai servizi sociali, che ci divideranno dalle nostre figlie e nipoti? Io non ci sto. Torno in Romania. Ora vediamo lunedì che succederà, ma siamo pronti al peggio”. La sintesi finale sembra semplice per quanto impietosa: tornare nel Paese dal quale sono fuggiti. Banale e risolutiva per alcuni, per altri sintomatica di un fallimento chiamato integrazione.
Marco Agostini
Fonte: Agenzia Dire – www.dire.it