Acronimo PAS: chi sono le persone altamente sensibili
Studi avviati nei primi anni ‘90, soprattutto negli Stati Uniti e in Canada, hanno definito, con l’acronimo PAS, le “persone altamente sensibili” (in inglese HSP, “highly sensitive person”) per contraddistinguere la loro spiccata sensibilità di tipo biologico e il modo in cui elaborano le emozioni, anche quelle altrui, in maniera molto intensa, vivendo di enorme empatia e apertura. La persona altamente sensibile fatica a contenersi dinanzi agli inviti, ad allentare l’adesione e l’attenzione sugli eventi e sulle emozioni. Tali consigli, infatti, generano conflitti interiori che inducono il “soggetto PAS” a reprimere la propria condizione e a sentirsi in errore.
Come riconoscere le PAS
Elain Aron, psicologa, ha introdotto il concetto già nel 1991, riassumendo i suoi studi in un primo volume, edito da Harmony, dal titolo “The Highly Sensitive Person”, seguito da altre pubblicazioni del genere. A lei si deve la stima della forbice: una percentuale tra il 15% e il 20% della popolazione si ritrova nelle condizioni dell’alta sensibilità.
Le caratteristiche che possono far denotare di essere una PAS sono legate alla profonda riflessione (abbinata a contesti non rumorosi o affollati), al sottile discernimento anche dei dettagli, alla grande empatia, all’interesse poliedrico e non limitato settorialmente, alla tendenza a rimuginare molto, immedesimazione nelle problematiche altrui con conseguente grande anelito di giustizia, passione per la cultura, le arti, gli animali.
Le PAS e il lavoro
La profondità nel recepire emozioni proprie e altrui, nel custodirle ed elaborarle di continuo, si scontra con i ritmi e l’apatia di un modo lavorativo spesso volto solo al risultato e all’aspetto quantitativo. Il lavoro (come altri settori del vivere quotidiano), infatti, tende a sminuire o a sottovalutare la creatività innata degli HSP-ers anziché valorizzarla e capitalizzarla a beneficio dell’intero team.
Per una persona altamente sensibile, il carico di lavoro non è costituito solo dalla mole dell’attività fisica e cognitiva propria della professione bensì dalla gestione di tutti gli impulsi e le sensazioni che si originano di continuo. Saper affrontare questa entità di percezioni, significa anche essere in grado di gestire i rapporti con colleghi o datori di lavoro che spesso ignorano tale caratteristica. In un mondo lavorativo frenetico, ripetitivo, impersonale, rivolto al profitto non è agevole trovare le condizioni adatte.
La soluzione
La soluzione proposta è quella di orientarsi maggiormente verso le professioni che diano più spazio alla persona, alla possibilità di sviluppare la soggettività così unica, a beneficio anche degli altri (a esempio l’insegnamento). Tuttavia, ciò che non si ribadisce a sufficienza è che la persona altamente sensibile, nella sua cultura inclusiva, deve tendere a non escludere e a non fuggire dal problema; per questo sarebbe importante promuovere la ricerca lavorativa anche in ambiti ritenuti meno adatti poiché il suo contributo condurrebbe senz’altro a umanizzarli. Al tempo stesso non si ghettizzerebbe l’alta sensibilità e chi ne è dotato.
Persona altamente sensibile e persona ipersensibile: le differenze
È necessario distinguere la persona altamente sensibile da quella ipersensibile. Nel primo caso si tratta di motivazioni biologiche che sono alla base dell’individuo sin dalla nascita e predispongono a processi interpretativi intensi e dettagliati. La seconda è legata allo stato d’animo e all’emotività.
Gli ipersensibili subiscono disagio piscologico e, le aggressioni che somatizzano, li rendono più fragili, insicuri e in difficoltà nel gestire l’emozione e l’offesa. L’alta sensibilità porta a un disagio psicologico minore, avvertito per la pressione dell’ambiente esterno a essere più cinici, invitando a far scivolare eventi e situazioni.
Entrambe le situazioni sono, comunque, soggette a stress, sebbene per natura e con atteggiamento diversi. Le PSA devono ottimizzare questa loro attitudine senza farla giungere a livelli patologici e inibenti. Gli ipersensibili devono risolvere la forte pressione emotiva che subiscono.
Gli effetti della pandemia
Alla luce degli effetti della quarantena e della pandemia in generale, occorre valutare se ci sia stato un incremento delle condizioni di disagio e di stress o una reazione rabbiosa alle avversità trasformando l’imprevisto in risorsa.
Il 9 giugno scorso, il Corriere dello Sport ha pubblicato, qui, un interessante sondaggio. “La ricerca è stata condotta tra il 6 e 20 aprile attraverso un questionario online di 48 domande, di cui 24 sullo stress psicologico. Hanno partecipato 35.011 adulti, di cui 20.158 hanno completato il questionario. Il 52,6% degli intervistati ha riportato problemi di tipo psicologico durante la quarantena, di cui 5,5% in forma grave. In particolare il 9,9% ha riportato sintomi depressivi di moderata-grave entità, il 5,6% ansia e il 4% sintomi fisici”. La quarantena, dunque, ha prodotto un notevole effetto negativo sulla psiche e la sensibilità degli individui. La temporanea tregua estiva del contagio e la ripresa delle ultime settimane non hanno offerto prospettive incoraggianti.
Il Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, l’11 settembre scorso rimandava a un articolo di quotidiano.net, in cui il noto istituto di ricerca Piepoli ha stilato uno “stressometro”, sulle ultime paure e ansie degli italiani riguardo alla seconda ondata della pandemia. Attraverso un campione di circa 500 intervistati di varia età, le principali fonti di stress, con domande a risposte multiple, risultavano nell’ordine:
- emergenza Coronavirus (57%);
- condizione economica (44%);
- situazione lavorativa (37%);
- situazione politica (24%);
- condizione di salute (15%).
In conclusione
Soffocare, da bambini, la propria ricchezza interiore, significa compromettere lo sviluppo della personalità. Spetta ai genitori, sin dai primi anni di vita, cogliere la particolarità (non la stranezza) dei loro figli e difenderla, valorizzarla, anziché ignorarla o invitare a essere più freddi e cinici in una società che non ammette la troppa sensibilità.
Si tratta di una specificità sconosciuta alla società. Si ignora anche la derivazione di tipo biologico, connaturata a tratti peculiari del proprio e unico sistema nervoso. La tendenza della società, sempre più impermeabile e superficiale, tende quasi a considerare tale attitudine come una patologia. Il soggetto risulta considerato come debole e inadatto alla socialità. La verità è proprio nella direzione contraria, per cui è necessario dar voce all’alta sensibilità, a farla conoscere come caratteristica biologica e connaturata all’individuo.
Anziché costringere a reprimere tale intensa reattività, si dovrebbe procedere alla valorizzazione, a far sì che l’intera società sappia di questa particolarità. L’alta sensibilità, infatti, non deve essere circoscritta a chi la possiede e agli specialisti che se ne occupano bensì deve essere portata a conoscenza dell’intera collettività, con un’informazione adeguata. Ai media, dunque, il compito di renderla nota a tutti, con l’impegno a illustrarla per ciò che è: valorizzare l’aspetto positivo e non ventilare una condizione quasi patologica e da curare.
Marco Managò (Interris.it)