Africa: le conseguenze delle divisioni le pagano gli ultimi
Il panafricanismo è il movimento, nato all’inizio del Novecento, per unire tutto il popolo del continente e battersi per la fine del razzismo e della povertà. Ha ottenuto dei risultati importanti ma fatica a superare le barriere culturali, gli egoismi nazionali, le velleità dei dittatori locali e gli ammiccamenti agli Stati decisamente interessati alle ricchezze del territorio.
I primi passi, a livello istituzionale, furono i 5 congressi organizzati, tra il 1919 e il 1945, per discutere del panafricanismo e della soluzione della diaspora. A posteriori, uno dei limiti di questi congressi preparatori fu la sede prescelta: mai in Africa. Il primo appuntamento nel continente si ebbe nel 1958, con la Conferenza degli Stati africani indipendenti. Nel 1963 si giunse alla costituzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OAU), in cui, viste le posizioni divergenti, fu necessario richiamare, espressamente, il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati sovrani.
I movimenti anticolonialisti del Novecento condussero non solo gli Stati africani all’indipendenza (in soli 6 anni, dal 1956 al 1962, infatti, la ottennero ben 26 Paesi) ma amplificarono la consapevolezza del voler ricostituire l’unità e l’identità degli uomini di colore.
Nel 2002, sulle ceneri dell’OAU è nata l’Unione Africana, in cui si è posta maggiore attenzione, rispetto al passato, alla tutela della pace e del rispetto dei diritti umani. L’adesione all’Unione è avvenuta da parte di tutti gli Stati africani senza eccezioni, in una reale dimostrazione di intenti.
Panafricanismo significa anche una riunione delle comunità del continente, sparse, nei secoli scorsi, in una diaspora che ha coinvolto quasi tutto il mondo, in particolare negli USA.
Accanto al termine “panafricanismo”, spesso è abbinato quello di “negritudine”, una corrente di pensiero che, già negli anni ‘30 del secolo scorso, propugnò la riscossa culturale e identitaria del popolo di colore. Nel corso degli anni, il movimento perse molti sostenitori, convinti di una categorizzazione infelice e, involontariamente dotata, a livello metacognitivo, di un ripetersi di elementi razzisti.
Ci sono state e sono ancora presenti posizioni molto diverse tra gli stessi africani. Per alcuni, la negritudine è un atteggiamento culturale per difendere i valori dei neri, per altri è l’accettazione del colonialismo stesso, un’ammissione di diversità e del razzismo patito.
A un atteggiamento più rivoluzionario e deciso, a volte è corrisposto uno più attendista, inserito nelle istituzioni e avviato verso una politica di “adattamento” collaborativo, rivolto alle riforme graduali, come l’educatore Booker Taliaferro Washington.
Alcuni si pongono su situazioni moderate, di proseguimento della propria situazione, pur nella fermezza del perseguimento dell’uguaglianza e dei valori, altri propugnano il ritorno di tutti i cittadini di colore nel suolo natio degli antenati, per la fine della diaspora.
Gli intellettuali sostenitori della negritudine hanno tenuto, sempre, a specificare come questa non sia un atteggiamento banale, triste, passivo e remissivo, bensì uno spunto di rivolta, con dei significati attivi, di slancio e rivendicazione di dignità e diritti. Uno dei cardini più importanti è il richiamo alle antiche tradizioni, culturali, religiose, musicali, da riproporre e garantire, in sostituzione di quelle imposte.
Movimenti nuovi di rivendicazione dei diritti, come il recente “Black Lives Matter” (Le vite dei neri contano), devono necessariamente valutare l’esperienza (e gli incidenti di percorso) di consapevolezze ormai secolari, come panafricanismo e negritudine. La Caritas italiana, al link https://www.caritas.it/home_page/attivita_/00003666_Africa.html, ricorda:
“In Africa vivono circa 1 miliardo di persone, il 13% della popolazione mondiale, ma in essa viene prodotto solo il 2% della ricchezza planetaria. Secondo la Banca Mondiale il reddito medio dei suoi abitanti è 6 volte e mezzo inferiore alla media mondiale e 21 volte inferiore a quello medio dell’Unione europea. Da sempre è il continente con il più alto tasso di denutrizione al mondo. Dei 20 Paesi del mondo con l’indice di sviluppo umano più basso, 18 appartengono all’Africa subsahariana”.
L’OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha stilato un interessante report, visibile al link http://www.oecd.org/dev/africa/Dinamiche-sviluppo-dell-Africa-2018.pdf, dal titolo “Le dinamiche di sviluppo dell’Africa-Crescita, occupazione e diseguaglianze”, in cui sono contenuti molti dati e numeri interessanti. Fra questi, a pag. 21, in merito alle migrazioni, si precisa:
“L’emigrazione dall’Africa sta toccando picchi mai raggiunti prima: nel 2017, 36,3 milioni di individui nati in Africa non vivevano nel proprio Paese di origine. Si tratta di un forte aumento rispetto ai 20,3 milioni di individui registrati nel 1990. Tuttavia, l’emigrazione in percentuale della popolazione totale è scesa dal 3,2% nel 1990 al 2,9% nel 2017, perché la popolazione del continente cresce più rapidamente della sua emigrazione. Le cause di questo aumento assoluto nell’emigrazione vanno dai disordini interni all’aumento del reddito, che rende la migrazione più accessibile, in particolare per un gruppo di Paesi popolosi, quali la Repubblica Democratica del Congo, l’Egitto, il Marocco, la Somalia e il Sudan (UNDESA, 2017b)”.
Il panafricanismo deve sfruttare la nuova tecnologia così diffusa e penetrare, anche attraverso un duro impegno via social, nelle coscienze dei giovanissimi, di coloro che non hanno vissuto in prima persona lo slancio sociale e solidale degli anni ‘50 e ‘60 ma devono esserne fedeli testimoni e continuatori.
Al tempo stesso, l’Unione deve risolvere i problemi interni (povertà, fame, malattie, violenza, droga) e la fuga dal continente in seguito a conflitti o situazioni di indigenza, affinché non si configuri una nuova diaspora, legata a un’altra forma di schiavitù.
Il contesto deve fare i conti anche con pressioni esterne e non interessate a una coesione sociale africana, anzi, preoccupate di una presa di coscienza transazionale ostativa allo sfruttamento delle risorse e della popolazione.
Ne ha saputo qualcosa Thomas Sankara, tra i difensori più strenui della causa panafricanista che rivoluzionò e fece del Burkina Faso una nazione nuova, indipendente, in grado di costituire davvero un traino per tutto il continente. Pagò con la vita questo periglioso ardire. È necessario che gli “affari” africani siano risolti in modo diretto e autentico, senza intromissioni e ingerenze di Paesi altrimenti interessati.
Purtroppo, in un continente dilaniato dalla povertà, dai regimi militari, dalle guerre civili non è semplice cementare, in modo uniforme, le coscienze di tutti; anche l’aspetto identitario, sebbene sentito, in alcuni individui cede il passo alla bramosia di potere, elemento più forte della fratellanza. Le conseguenze le pagano sempre gli ultimi. Un proverbio africano recita:
“Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”.
I termini panafricanismo e negritudine, in ogni caso, hanno rivestito dei significati enormi e si sono posti come continuo punto di riferimento e di sostegno alla causa indipendentista che ha trionfato nella seconda metà del secolo scorso. Occorre sfruttare questa loro enorme valenza di significato e di obiettivi realizzati, continuando a operare dal suolo natio, possibilmente in piena autonomia e cercando di sfruttare le diverse opinioni dei suoi sostenitori come stimolo alla crescita.
Tale assunzione di responsabilità si rende davvero necessaria in una fase storica come quella presente, in cui i contraccolpi del Coronavirus irrompono, prepotentemente, in un contesto già povero, fragile e squilibrato.
Marco Managò (Interris.it)