Moda e Coronavirus: ecco la situazione del Made in Italy durante la pandemia.
Molti settori industriali sono sopraffatti dalla crisi causata dalla pandemia. Il settore moda, fiore all’occhiello del Made in Italy, è uno tra quelli maggiormente colpiti.
In Terris ha voluto conoscere più da vicino la reale situazione del settore intervistando Stefano Dominella, Presidente di Gattinoni e Presidente della Sezione Moda Design e Arredo di Unindustria per il Lazio.
Moda e Coronavirus: l’intervista a Stefano Dominella
Durante la prima ondata del coronavirus, il settore moda si è adoperato immediatamente a trasformare la propria produzione, avviando la realizzazione di mascherine. Possiamo dire che il Made in Italy si è messo al servizio di tutti?
“No, perché solo una minima parte delle aziende del settore moda si è riadattata a produrre mascherine. È come un ago in un pagliaio, perché, in Italia, le aziende di moda sono 330 mila: da chi produce i bottoni a chi produce il filo o qualunque altra cosa. Il fatto che alcune aziende, in particolare quelle più blasonate, abbiano annunciato di produrre mascherine, anche se rappresenta una buona azione verso tutti, è soprattutto un’azione pro domo sua, in quanto va ad accrescere la loro immagine, anche perché le mascherine di seta o con gli strass non servono a niente, non sono le vere mascherine che vanno utilizzate”.
Come sta reagendo il settore della moda alle conseguenze della Covid-19?
“Da uno studio fatto da Confindustria e da altre associazioni, purtroppo, risulta che non ci sono state reazioni vere e proprie; infatti la moda, fino a settembre, ha perso il 38%. Non ci sono ancora dati certi da settembre fino ad oggi, ma senz’altro c’è stato un decremento. Ci sono aziende, come ad esempio Ferragamo, che hanno perso addirittura il 45%.
Più che di reazione, si può parlare di sopravvivenza: un cercare di dare una botta al cerchio e un’altra alla botte ricorrendo agli ammortizzatori sociali, mettendo il personale in cassa integrazione. Una reazione non si potrà avere fino a quando nel mondo non finirà la pandemia. Oggi ci sono mercati, come quelli degli Stati Uniti, che sono completamente fermi. Il Made in Italy vive di esportazioni all’80%. Il venduto in Europa rappresenta un 15-20% scarso e il venduto nazionale costituisce una percentuale piccolissima.
È evidente che il Made in Italy, con i suoi 100 miliardi di fatturato attivo, vive di esportazioni. Siamo i più grandi esportatori di moda e del lusso del mondo. L’e-commerce funziona per le aziende che vendono prodotti adatti all’e-commerce. Di certo, un abito da uomo o da donna oppure un accessorio con un prezzo superiore ai 1.000,00 euro è difficile che venga acquistato online”.
Come Unindustria Lazio sta contribuendo a rilanciare il mercato?
“Unindustria Lazio sta cercando di sostenere le aziende che fanno parte del mio gruppo come può: tenendole aggiornate, facendo loro da ponte con le banche, studiando le possibilità di ricorrere agli ammortizzatori sociali e seguendo il personale in cassa integrazione.
Il problema maggiore è per le micro e piccole aziende. Il Lazio è la settima regione in Italia per produttività di moda, quindi si tratta di micro, piccole e medie aziende. Grandi aziende non ce ne sono, all’infuori di Bulgari, Valentino e lo studio stilistico di Gucci. Da marzo a oggi, hanno chiuso oltre 400 piccole e micro aziende. La situazione, quindi, è abbastanza tragica”.
Tanti pensano che ormai lo shopping sarà sempre più online e che questo porterà alla chiusura dei negozi. Lei cosa ne pensa?
“Nel Lazio si contano già 350 chiusure effettive. Ma questo non è dovuto allo shopping online, perché c’è il negozio a basso costo, c’è il negozio a medio costo e c’è il negozio del lusso. Quelli che ne risentono più di tutti sono i negozi del lusso, perché una felpa, un maglioncino, una borsa da 100 euro si acquista con più facilità online, mentre di certo una borsa griffata di Fendi, di Gucci da 1.500 o 2.000 euro è più difficile che venga acquistata online. Chi ne risente di più è, dunque, la fascia medio-alta e quella alta sia per l’assenza di turisti stranieri e sia per la limitazione di tutte le occasioni d’uso per gli italiani.
Di certo si acquistano vestiti nuovi per andare in ufficio, ma non spendendo quanto si spende per un’occasione speciale, come una festa, un matrimonio per i quali si acquistano abiti un po’ più su di tono. Oggi tutto questo non è consentito, quindi l’acquisto è limitatissimo; inoltre, nelle città dello shopping come Milano, Roma, Firenze, Bologna mancano all’appello i turisti stranieri, che sono i maggiori acquirenti, quindi siamo al palo”.
La moda ormai si sta sempre di più orientando al green, ovvero a materiali più ecosostenibili e di alta qualità. Potrebbe essere questa la nuova carta vincente del Made in Italy?
“No, perché io credo che l’ecosostenibilità sia importante, ma nella moda è molto difficile giungere, specie nel lusso, a un’ecosostenibilità a 360°, perché se si vuole un pullover di un particolare colore fucsia sfumato non si può realizzare attraverso un processo ecosostenibile. Gattinoni fece la prima collezione di alta moda ecosostenibile nel 2008. Fu, però, estremamente difficile dare il senso del lusso e della ricchezza del capo con delle tabelle colori e dei materiali da ornamento molto molto ristretti. Quindi, fu più un tentativo che una collezione riuscita”.
Perché quindi c’è la difficoltà della limitatezza dei colori?
“Dire colori vuol dire una certa qualità, vuol dire tutto quello che si fa sulla materia prima come il cachemire, le angore e certi pellami trattati in un certo modo. Si possono certo avere delle attenzioni, però io non credo che nel medio alto e nell’alto si possa giungere a una sostenibilità del 100%, anche perché il settore moda è il più inquinante di tutti, sia per i colori, sia per le trasformazioni dei materiali, sia per la concia delle pelli. Basta guardare a Solofra: stanno facendo delle ricerche, grandi tentativi che però fino a adesso hanno portato a piccoli risultati”.
A settembre, abbiamo avuto modo di poter assistere in forma digitale alle sfilate di Alta Roma e della Milano Fashion Week. Alcune case di moda hanno condiviso le loro passerelle su Instagram, altre hanno trasmesso l’evento anche in televisione. Secondo lei, in qualche modo, questa modalità ha contribuito ad avvicinare di più i consumatori al mondo della moda?
“Sicuramente è un tentativo di resistere, di esserci, quindi ben venga. Non hanno, però, avuto un risvolto sui consumatori perché le sfilate presentate a Milano si riferiscono all’estate prossima, quindi il consumatore finale non trova ora quegli abiti, quindi non può comprarli adesso quegli abiti, ma deve aspettare aprile. Per quanto riguarda i buyer, che acquistano invece per le boutique, per i negozi o per i grandi magazzini, purtroppo sono state abbastanza deludenti le sfilate in forma digitale perché, nella fascia medio-alta, alta e altissima, il capo, l’artigianalità che giustificano il prezzo li devi vedere di persona.
Fermo restando però che è stata una buona cosa farle per dire: la moda ancora esiste, c’è, ma non ha avuto un riflesso commerciale sull’utente finale, perché ci sono sei mesi di differenza tra la presentazione e quando poi la moda può essere trovata sul mercato.
È stato bellissimo vedere la sfilata di Armani su LA7, perché finalmente l’utente finale ha visto uno spettacolo completo, mentre a una sfilata di Armani magari non avrebbe mai potuto assistere. È stata una novità che una televisione privata di qualità presentasse tutta una sfilata. Bisognerebbe, comunque, parlare di più di quello che veramente è la moda in Italia. Anche perché questo settore non è fatto solo di Prada, Gucci e Armani, sono 330.000 le aziende che vi operano.
Quindi, tolti quei 20 acclamati cult, bisogna dare voce alle piccole e medie imprese della moda. Anche per avvicinare i giovani.
Io insegno all’università da molti anni, sia a “La Sapienza” che all’università privata, e quando arrivano i ragazzi che si sono appena iscritti bisogna proprio cominciare da zero per dar loro l’immagine, l’essenza di che cos’è questo settore. Questo perché pensano che fare moda, frequentare per tre anni l’università e poi per un anno un master, sia poi fare una bella felpa con una bella scritta, un bel disegno. Invece non è così.
È un lavoro meraviglioso, ma è un lavoro dove è importante conoscere il passato per prevedere il futuro, senza passato non si può andare avanti, perché la moda ora è a un punto morto in fatto di creatività, nel senso che non ci sta inventando la giacca a tre manica e i pantaloni a tre gambe. È un rifacimento continuo, rivisitando il passato. Sono 40 anni che faccio questo mestiere e ho vissuto tante esperienze diverse. Non si può affrontare il futuro, senza passato, se non c’è un approfondimento nella storia della moda.
Ecco anche perché, in questi ultimi due anni specialmente, è tornato di moda l’ heritage. La collezione di Gucci è fatta tutta, al 100%, in base all’archivio, rifacendo, rimescolando, dando una nuova vita a pezzi iconici d’archivio anni ’50, ‘60 e ’70. Si stanno rivalutando anche gli anni ‘80 e ’90, quindi i tessuti tecnici”.
La pandemia ha quasi obbligato la diffusione dello smart working. È stata un’occasione per fare crescere o nascere nuove professioni della moda legate al digitale?
“Sì, in qualche senso. Il digitale sicuramente. Con lo smart working, in particolare con il disegno tecnologico, si stanno aprendo soprattutto per i giovani nuove possibilità di inserimento. Certo dovrà passare la pandemia perché abbiano un posto fisso. Non sono più necessari tante ore e tanti fogli da disegnare con la matita e i colori perché oggi con la tecnologia si può disegnare in pochi minuti, una cosa bellissima”.
Quindi programmi più specifici?
“Si, certo. A Roma, attualmente, ci sono 14 scuole di moda. E, sicuramente insieme a Milano, sono le due città che hanno il maggior numero di studenti di scuole di moda”.
I giovani stilisti emergenti si ispirano ancora ai grandi maestri del Made in Italy?
“Sì. Ne parlano male, dicono che son vecchi, però poi quando devono fare un giro manica, una manica raglan o certi volumi attingono dagli stilisti classici”.
Quindi è un po’ controverso questo rapporto?
“Si, è un po’ controverso perché vorrebbero giustamente, come volevo anch’io, rivoluzionare lo stile, ma poi la gente che acquista al contrario è molto tradizionalista. Specialmente nella fascia medio alta e alta, la classe borghese, che attinge a quello stile, difficilmente vuole cambiare. Quindi, solo piccoli cambiamenti. Però è giusto che i giovani creativi abbiano questo desiderio di voler cambiare, questo senso tra virgolette di emancipazione. È uscito giorni fa un libro su Elio Fiorucci. Fu uno dei grandi rivoluzionari della moda anni ‘70: molti giovani, anche quelli che hanno studiato nelle scuole di moda, non sanno chi era e cosa faceva, e soprattutto quale è stata la sua rivoluzione, i prezzi di vendita e lo stile. Era uno stilista che si rivolgeva ai giovani”.
È difficile però non ricordare gli angeli di Fiorucci almeno per la mia generazione, io sono del ‘92 e li ricordo bene.
“Si, sicuramente lei è al limite come età. Le ali d’angelo, gli abiti a quadretti, i bermuda portati sotto la giacca e via dicendo, sono cose iconiche, che ci portiamo dietro, che abbiamo ancora oggi; vengono rivisitate in continuazione”.
Lei ha fondato, due anni fa all’interno di Unindustria, il Club della Creatività. Cos’è esattamente?
“È un pool di giovani stilisti, di giovani creatori o start up che io ho inserito all’interno della sezione tessile abbigliamento Unindustria per creare un rapporto tra questi giovani e le aziende, per creare un ponte fra loro. E poi per portare avanti dei progetti ad hoc per far conoscere questi giovani che non hanno la possibilità di fare sfilate o di avere siti internet.
Quindi, abbiamo realizzato dei progetti anche di internazionalizzazione, li ho portati a Tokyo per fare con le loro mini-collezioni quattro giorni di showroom che sono andati benissimo. Ora, appena sarà possibile abbiamo il progetto, sostenuto dall’Ice, di portarli a Seoul, in Corea, che è un mercato ottimo specie per le cose più fresche, più giovani, più particolari”.
Che consiglio si sente di dare ai giovani che desiderano lanciarsi in questo settore nonostante la situazione da covid-19?
“Il consiglio è quello di sempre, perché per fare questo lavoro bisogna avere tanta tenacia, crederci al 100% e avere una buona salute perché è un lavoro faticoso. Quando c’è il fuoco sacro, la scintilla per questo settore, per questo lavoro, sia nella parte creativa che nella parte tecnica – perché non è solo un mondo fatto di creativi, anzi è un mondo fatto anche di tecnici, di artigianalità e di ricerca – bisogna perseverare, non lasciarsi deprimere dalle difficoltà perché c’è spazio per i giovani. È un settore dove lavorano oltre 750.000 persone con un indice di età basso, perché la media è di 40 anni, quindi questo vuol dire che ci può essere ancora spazio”.
Giulia Ficarola