Ricordi di Sicilia: alla ricerca dei sapori perduti
Alla fine, questa bizzarra estate ci ha lasciati, così, in un baleno, dall’oggi al domani. Estate anomala: state a casa, non andate all’estero, quanto è bella la patria nostra, evitate assembramenti…
Non è andata proprio così e lo stiamo vedendo, o meglio lo vedremo ancora. Sono tornati i virologi/tuttologi a riempire gli schermi, gli spazi sui social e sui giornali virtuali e non.
Eccoci, catapultati nell’autunno, il dolcissimo fine ottobre/inizio novembre di una volta, ha assunto le sembianze di un piovoso, noioso, triste novembre, in gran parte d’Italia. Noi, in Sicilia, assaporiamo un clima più mite, soprattutto l’estate di San Martino, sempre gradevole momento autunnale.
Sono portato ad associare le stagioni meteorologiche al cibo, una delle mie passioni, e il primo che mi viene in mente di questi tempi è la pasta con i legumi freschi di stagione: i fagioli.
I fagioli di Testa Rossa il barbiere
Non solo un cibo, un rituale, qualcosa che arriva in tavola sempre da protagonista. Si prepara non solo per il piacere di mangiarli ma per stare insieme. È uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia e adolescenza: “I Fagioli di Testa Rossa il Barbiere”. Ancora oggi è un piatto che da solo fa la festa in casa Battaglia…
Tiro in ballo la proprietaria di una bottega che forniva mio padre “U Varbieri” (Il Barbiere): Donna Vicè, era lei la regista di tutta l’attività, un donnino piccolo, curvo sotto il peso degli anni e non solo, lavoratrice instancabile, carattere dolce ma estremamente volitivo, autorevole e mai autoritaria, mai sentita litigare o discutere con i propri clienti… Era lei che vendeva e sbucciava i fagioli freschi per cucinarli a casa mia, mia madre lavorava all’ospedale.
Il mattino della cottura, cotti rigorosamente sulla cucina a legna, “U Varbieri” andava a prendere il sedano alla fiumara… un odore indimenticabile che inebriava tutta la 750 Giannini.
Poi si iniziava, lentamente, a pioggia, a far scendere tutti i semi nella pentola e poi entrava in azione il nodoso bastone, non troppo liscio per poterlo maneggiare meglio, si girava, sempre rigorosamente nella stessa direzione per almeno 40 minuti a intervalli, il tempo di una Messa si diceva.
Alla fine la pentola veniva svuotata sui piatti antichi di terracotta smaltati e mescolati con la pasta fresca, detta “i cuddurreddi“, cotta nel mosto e servita in tavola con l’inevitabile olio d’oliva extravergine… il tocco magico. Per l’occasione veniva invitato lo zio Benito che, nonostante fosse già sposato da tempo, non perdeva l’occasione di assaporare il rinomato piatto in presenza di sua sorella, alias mia madre…
Mi viene sempre più spesso da pensare a quei tempi, ai protagonisti che lo hanno popolato, che oggi non ci sono più. Condividere ricordi da soli è triste, ma serve a ritrovare emozioni, la consapevolezza di aver vissuto tempi sereni. Non ritorneranno, ma ogni volta è come rivedere un film di cui conosciamo il copione e i protagonisti.
Salvatore Battaglia, Presidente dell’Accademia delle Prefi