L’autore, pur rispettando le scelte dei suoi confratelli, durante il primo lockdown ha preferito condividere con i suoi studenti, amici e sui social contenuti filosofici, teologici, spirituali, letterari e artistici facendo attenzione agli eccessi. Riflessioni e post che ora sono diventati un libro.
Il nuovo libro di don Giuseppe Pani, Pietre che rimbalzano sull’acqua. Cerchi di teologia del limite per vivere in nuovo presente (Effatà Editrice), è un buon esempio di come la scrittura sul web possa poi diventare un libro cartaceo profondo e mai scontato. Non a caso, l’autore è docente di teologia ma anche direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Universitaria, la Cultura e l’Evangelizzazione digitale dell’Arcidiocesi di Oristano. Pur rispettando le scelte dei suoi confratelli, durante il primo lockdown ha preferito condividere con i suoi studenti, amici e sui social contenuti filosofici, teologici, spirituali, letterari e artistici facendo attenzione agli eccessi: «L’ostentazione del clero, molto apprezzata nei primi giorni di confinamento, si è spenta fortunatamente col passare del tempo per lasciare spazio, salvo rari casi, alla sobrietà evangelica» (p. 15). Don Pani lancia tredici pietre sull’acqua: «Senza stravolgere il senso di una nota pagina evangelica ho scagliato pietre (le parole occorre “lanciarle” perché le cose accadano) per creare cerchi di etica (una micro-lezione per i miei studenti, una meditazione oppure un post sui social) capaci di dilatarsi nella rete il più possibile» (p. 17). Pietre e cerchi concentrici che ora sono diventati un saggio.
Prive di autocensure le prime pietre-riflessioni analizzano l’attuale situazione ecclesiale. L’autore accenna anche a una “bipolarità” (la separazione tra cultura teologica e vita spirituale) presente da secoli all’interno del mondo ecclesiale, ma venuta tragicamente a galla durante il lockdown attraverso quella che definisce la «liturgodemia digitale con abusi di ogni tipo o religiosità popolare da remoto con ritorno indiscriminato a devozioni del passato. Senza dimenticare, anche prima della pandemia, il «prete modaiolo che s’inventa l’aperimessa, canta Bella Ciao o quello “ballerino” convinto di essere un concorrente di Ballando con le stelle» (p. 16). Il teologo sardo si rivolge così ai sacerdoti: «Nel lockdown abbiamo perso l’occasione di vivere come monaci senza regola, come moderni eremiti in grado di cogliere gli abissi della nostra e altrui fragilità: la contemplazione e il silenzio generano la creatività, la più alta espressione dell’azione» (p. 25). Sarebbe stato opportuno usare il tempo sospeso come tempo di autocritica e riflessione: le chiese erano vuote o chiuse anche prima della pandemia (cfr. p 65).
Preambolo perfetto alle “pietre” preziose sulla fragilità e la vulnerabilità è la prefazione affidata al noto teologo Martin Lintner: «L’esperienza del male, della sofferenza, della solitudine e dell’isolamento sociale, dell’agonia e della morte, oggi per non poche persone rappresenta un motivo non solo di dubbi, ma anche di perdita della fede in un Dio che è buono, in un Dio che è relazione, in un Dio che è origine e compimento della vita. E così quella mattina di Pasqua l’annuncio del Vangelo della tomba vuota nelle chiese vuote è stato percepito come grido disperato di Dio, dolorosamente sperimentato come assente. Infatti, come mi ha raccontato una persona, pur essendo la mattina di Pasqua, nel suo intimo si sentiva piuttosto immersa nel buio silenzioso del Sabato Santo» (p. 8).
Suggestive, perché dense di Sacra Scrittura e prive di inutili sentimentalismi, le pagine che il teologo arborense dedica al dolore: «Abituati a osservare la disperazione dalle tribune, la pandemia ci ha costretto a scendere nell’arena della desolazione innocente. “Nell’arena si soffre, forse ci si lamenta e si grida; forse si loda ugualmente Dio, ma non si riflette sul dolore. Nell’arena del dolore, la sofferenza non è un problema, ma la realtà”» (pp. 65-66). Per questo motivo, critica un certo mondo ecclesiale che ha dato risposte semplicistiche al patire e al morire: «Un nanosecondo dopo i primi casi di Coronavirus, i soliti noti (non ignoti) hanno colto la palla al balzo per parlare di punizione divina. Non aspettano altro che un terremoto, una sciagura, una malattia mortale per poter esternare le loro sciocchezze. I cristiani, preti compresi, del Dio-ghigliottina pullulano sui social» (p. 22).
Degna di nota una delle tante immagini dedicate al limite: «Ciò che “de-limita” i pittori, lo spazio ristretto della loro vita (spesso tormentata) o tela, non appare ai loro occhi bloccante e frustrante, ma costruttivo e creativo; anzi, ciò che li “de-finisce” li rende unici, li fa esistere. Il limite è al centro della loro vita, non ai margini» (p. 31).
Poetici i pensieri dedicati alla montagna e al mare: «Dopo mesi perennemente “connesso”, finalmente arrivo sulla vetta e m’immergo nel Creato. Nel punto più in alto del monte (oros in greco) osservo il limite ultimo, l’orizzonte (horos in greco), che rivela l’illimitato, l’infinito. Nella lingua greca, con una minima aggiunta dell’aspirazione, il monte diventa orizzonte. Dalla cima, dimora contemporaneamente del limite visibile e dell’infinito invisibile, osservo il continuo rinascere silenzioso della natura» (p. 59).
Commoventi i passi che don Pani dedica ai medici, agli infermieri, agli operatori sanitari: «Durante il confinamento, con la loro competenza, tenerezza e dolcezza, sono stati l’unica presenza per tanti morenti privati del calore dei propri familiari: essere presenti alla sofferenza dell’altro è la vocazione di ogni uomo. Li ho immaginati “prendere la mano” ai malati, posare il loro sguardo sui corpi martoriati. Davanti al coma di tanti pazienti, in un silenzio angosciante, sono stati costretti a fare “corpo unico” con l’universo che muore: sono stati “sotto” il ponte che unisce la vita terrena a quella eterna. Medici, infermieri, operatori sanitari non hanno potuto nemmeno sognare il “passaggio” ideale per i loro pazienti, ma solo quello “possibile”: Ogni malato attraversa la zona grigia a suo modo, l’affronta col proprio passo, superando, come può, gli ostacoli imprevisti fino all’ultimo soffio di vita» (p. 96).
Nell’undicesima pietra, una raccomandazione: «In questo nuovo presente ecclesiale, la misericordia richiede fantasia e creatività. Solo così supereremo gli ostacoli, le chiusure sigillate dall’egoismo. Oggi non è più possibile restare confinati nei nostri personaggi o ruoli acquisiti, nell’esercizio del solito menù teologico, nelle discussioni interminabili sui nostri errori di valutazione pastorale. Di fronte ai “nuovi poveri” generati dal Coronavirus, la misericordia domanda una sovrabbondanza di intelligenza, di pensiero, di volontà, di interpretazione dei segni dei tempi» (p. 87).
Nell’ultima pietra, un invito perché finalmente la politica mondiale sia di nuovo efficace: «Forse un giorno eleggeremo politici saggi, non solo intelligenti. Qual è la differenza tra un uomo intelligente e uno saggio? La risposta è semplice: l’intelligente sa risolvere i problemi che l’uomo saggio ha saputo evitare» (p. 102).
Un saggio coerente con le idee e lo stile dell’autore: «La teologia, la cultura cristiana dovrebbero produrre – servendosi sempre di più del linguaggio giornalistico e narrativo – “fogli” di riflessione, non solo opere ciclopiche. Fogli di riflessione arricchiti dalla contaminazione con le altre scienze umane (pp. 17-18).
Gian Piero Pinna