“La mia infanzia finisce a otto anni”.
Lo ha ripetuto molte volte Sami Modiano. Lui, che ad Auschwitz-Birkenau ci è entrato adolescente, per uscirne colmo di quelle terrificanti esperienze che nessun uomo, nemmeno adulto, sarebbe in grado di sopportare. Forse per questo, per sessant’anni, il rodese non ha mai visitato nuovamente quel luogo di morte.
Finché, come ammise lui stesso, non vide le lacrime negli occhi di quella scolaresca che scelse di accompagnare nel 2005. Senza che nulla fosse cambiato. Quella ferrovia, un freddo muro di mattoni, un cielo plumbeo, perennemente senza sole.
Una testimonianza
In quel momento Sami comprese l’importanza delle sue memorie, dei suoi ricordi, della condivisione di quel che i suoi giovani occhi avevano visto. E di quello che il suo cuore aveva già sopportato. La perdita del papà, della sorella, della maggior parte di quelle 2 mila persone che componevano la comunità ebraica dell’isola di Rodi. Solo un ragazzo, che aveva già da tempo smesso di essere un bambino.
Perché la Shoah, lo sterminio sistematico nei campi nazisti, non è che l’apice della follia. L’ultimo atto di un orrore costruito nella quotidianità di ogni giorno, attraverso la negazione dei diritti fondamentali. Agli uomini il lavoro, ai bambini la scuola. Addossando loro l’atroce pensiero che la colpa di tutto questo fosse la loro. Che un bambino potesse aver fatto qualcosa di così grave da giustificarne l’allontanamento dai propri compagni.
Adulti troppo presto
Se è vero che il tempo lenisce le ferite, è anche vero che spesso porta con sé dei segni indelebili. Interrogativi insoluti, immagini più limpide e nitide di qualsiasi fotografia. Guardare il male negli occhi, quello che gli uomini sono capaci di compiere ai danni del prossimo. Prove troppo difficili per poter restare bambini. I ricordi più dolci spazzati via dal rumore di binari logori, da urla dispotiche e da atrocità quotidiane.
Sami Modiano smise a otto anni di essere un bambino. Altri smisero persino prima. Loro, quei bambini dall’infanzia violata, sono gli ultimi testimoni dell’orrore. Della segregazione, dell’ingiustizia commessa. Gli ultimi, che alle generazioni successive hanno affidato il compito di conservare le loro memorie.
Memoria ogni giorno
La Giornata della Memoria arriva ogni anno e ogni anno il mondo si mobilita. Iniziative culturali e didattiche, momenti di preghiera, testimonianze appunto. Un giorno per ricordare, anzi, per ricordarci di non dimenticare. Una data simbolica, laddove il dovere della Memoria diviene quotidiano, da portare con sé ogni giorno. Perché gli ultimi testimoni oculari dell’orrore non sono più molti. Ma il loro ruolo di testimoni è già stato affidato a chi è venuto dopo di loro. E che, magari, in quei luoghi c’è stato, osservando con i propri occhi gli strumenti di morte di quel luogo. Ascoltandone il surreale silenzio.
Il progetto di Rimini
A perseguire quel dovere, il Comune di Rimini iniziò nel 1964, organizzando un viaggio per studenti delle scuole superiori nell’ex campo di concentramento di Mauthausen, in Austria.
Il primo di una serie di progetti culturali che, quest’anno, vedono la loro capitalizzazione con la nomina della città della Riviera romagnola come capitale della Memoria. Prima a portare i giovani italiani sul luogo della tragedia, prima a far comprendere loro la fortuna di vivere in un mondo libero. “Educazione alla Memoria” è il nome del progetto, partecipato da oltre 10 mila giovani riminesi dal ’64 a oggi. Un viaggio dove fu consumato l’orrore, tappa finale di un percorso volto innanzitutto a formare la coscienza della memoria civile.
Educazione alla Memoria
Oggi alla guida del programma educativo c’è la dottoressa Laura Fontana, il cui obiettivo resta sempre lo stesso:
“Incentivare lo studio della storia, anche nelle sue pagine più buie e drammaticamente più prossime alla nostra epoca”.
E anche “stimolare la sensibilità delle giovani generazioni su temi intrisi di drammaticità” come l’Olocausto. “Riflettere sulle eredità del passato per costruirsi una coscienza critica e responsabile nel presente”. In questi decenni, quasi 3 mila ragazzi hanno preso parte a un Viaggio della Memoria. E ognuno di loro è tornato cambiato, a prescindere dal luogo visitato (non solo i campi di sterminio, ma anche luoghi più vicini come la Risiera di San Sabba o l’ex ghetto di Venezia).
Monito perenne
Quest’anno, ricordano i responsabili, non è stato possibile. L’irruzione della pandemia, la difficoltà nell’organizzare gli spostamenti… E quel ruolo di educatori della Memoria che diventa se possibile ancor più fondamentale. Del resto, aver raccolto l’eredità di chi fu testimone è già di per sé un onere. Perché condividere i propri ricordi contribuisce alla costruzione di un patrimonio collettivo. Di una memoria collettiva. Da conservare come dovere ma anche come monito perenne. Per questo è un dovere di tutti.
Damiano Mattana (interris.it)