Paliaga (geologo – Pres. SIGEA Liguria): “Le cause sono ascrivibili alla dinamica delle falesie e all’instabilità che caratterizza i versanti: il moto ondoso erode la base delle falesie determinandone l’arretramento e particolari condizioni geologiche inducono una maggiore predisposizione al dissesto”.
“La frana che ha interessato il cimitero di Camogli è una delle manifestazioni dell’instabilità che caratterizza la costa tra Portofino e Genova in diversi tratti. Le cause sono ascrivibili alla dinamica delle falesie e all’instabilità che caratterizza i versanti: il moto ondoso erode la base delle falesie determinandone l’arretramento e particolari condizioni geologiche inducono una maggiore predisposizione al dissesto. Dove si verificano queste condizioni, si manifestano le frane, come nel caso del cimitero di Camogli e della grande frana di San Rocco, in frazione di Camogli.
Inoltre, per quanto riguarda il cimitero, le piogge che quasi incessantemente hanno interessato la Regione tra dicembre e gennaio hanno probabilmente influito sulla resistenza della falesia, accelerando un processo in atto.
La naturale evoluzione della costa e dei versanti interagisce quindi con le attività umane con effetti dannosi gravi, come in questo caso, secondo uno schema che purtroppo è ben noto lungo l’intera Regione, ma non solo”. Lo ha dichiarato in questi minuti, Guido Paliaga, geologo, Presidente della sezione Liguria della Società Italiana di Geologia Ambientale che oggi è stato proprio sul luogo della frana.
Come si può intervenire?
“La prima azione è monitorare il territorio: la tecnologia oggi permette l’impiego dei dati satellitari, ove possibile, i quali insieme alle tecniche tradizionali permettono al geologo di comprendere le dinamiche in atto e valutare quindi li grado di pericolo. Il territorio evolve continuamente e la sua conoscenza è indispensabile per valutare i processi in atto e, quindi, la pericolosità; la successiva analisi di vulnerabilità permette di determinare il rischio.
Il secondo passo è individuare i siti maggiormente esposti al rischio ed intervenire con tecniche di mitigazione ove possibile – ha continuato Paliaga – realizzando quindi una scala di priorità. Dove per ragioni tecniche non è possibile intervenire, è indispensabile procedere alla delocalizzazione degli elementi esposti: edifici, strade e, se è il caso, anche cimiteri.
Come purtroppo capita di ripetere ad ogni dissesto o alluvione, occorre quindi superare la logica della riparazione del danno e passare a quella della prevenzione.
I fondi destinati alla ripresa del Paese devono necessariamente destinare una quota alla mitigazione del rischio attuando la prevenzione.
Occorre smettere di consumare suolo e occuparsi di più della manutenzione di quello già consumato”.
E sul Dissesto Idrogeologico è intervenuto anche il Presidente Nazionale della Società Italiana di Geologia Ambientale, geologo Antonello Fiore: “Vedere il cimitero di Camogli spezzato in due con centinaia di bare franate nel sottostante mare, per me è una delle immagini più deludenti degli ultimi anni. Le regole delle aree cimiteriali sono chiare da molti anni. Voglio solo ricordare – ha concluso Fiore – che il D.P.R. del 10 settembre 1990, n. 285 “Approvazione del regolamento di polizia mortuaria” recita: “I campi destinati all’inumazione, all’aperto e al coperto, devono essere ubicati in suolo idoneo per struttura geologica e mineralogica, per proprietà meccaniche e fisiche e per il livello della falda idrica”.
Le aree cimiteriali hanno un significato spirituale profondo, ma anche devono essere dei luoghi sicuri per evitare l’inquinamento che si può generare con i processi naturali di decomposizione.
La moderna organizzazione dei nostri cimiteri nasce con il “Décret impérial sur les sépultures” – meglio conosciuto come “Editto di Saint Cloud” – che nel 1804 regolamenta la pratica delle sepolture. Nel Regno d’Italia entra in vigore sotto il nome di “Editto della Polizia Medica” nel 1806.
Questo episodio è un altro duro colpo alla politica intesa come gestione del territorio che ospita le nostre attività e le nostre vite. La mancata pianificazione, i mancati controlli, l’abbandono del territorio, la mancata manutenzione, il mancato monitoraggio, i mancati interventi non portano ad altro risultato che vedere bare franare in mare. 215 anni di regole disattese. Il mio timore è che non si cambierà passo solo con il cambio del nome del Ministero dell’Ambiente”.